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Mastro-don Gesualdo (tecniche narrative)

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Tra le tecniche narrative più originali e innovative del Verga vi è quella dell'impersonalità che viene utilizzata nelle opere veriste composte dallo scrittore dal '78 in poi.

Esempi tipici li troviamo nel romanzo Mastro-don Gesualdo.


Nota: per conoscere la trama del romanzo vedere l'articolo Mastro-don Gesualdo

Gesualdo Motta è uno che si è fatto da sé, da semplice muratore diviene possidente. Con la sua intelligenza e la sua energia infaticabile Gesualdo è arrivato ad accumulare una fortuna.

Nel Gesualdo Verga resta fedele al principio dell'impersonalità, per cui il narratore non coincide con un personaggio specifico ma si trova all’interno del mondo rappresentato che non è più quello dei pescatori o braccianti che lottano per i bisogni primari, ma quello dei possidenti, aristocratici, notabili, insomma gente che sta economicamente bene o che ha l’orgoglio di esserlo stata e di avere natali illustri.

Di Gesualdo non ci viene narrato nulla, il suo carattere ci è oscuro finché le sue azioni non formano la sostanza del personaggio.
Fino al quarto capitolo non ci è fornita alcuna informazione sul come Gesualdo è divenuto ricco; a questo punto è Gesualdo stesso che con un monologo interiore, in forma di discorso indiretto libero, rievoca il passato e quindi illustra al lettore sé stesso.

"…Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto... - Poi quando il Mascalise, suo zio, lo condusse seco manovale, a cercar fortuna... Il padre non voleva, perché aveva la sua superbia anche lui, come uno che era stato sempre padrone, alla fornace, e gli cuoceva di vedere il sangue suo al comando altrui. - Ci vollero sette anni prima che gli perdonasse, e fu quando finalmente Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo... la fabbrica del Molinazzo... Circa duecento salme di gesso che andarono via dalla fornace al prezzo che volle mastro Nunzio... E le dispute allorché cominciò a speculare sulla campagna!... - Mastro Nunzio non voleva saperne... Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. "Fa l'arte che sai!" - Ma poi, quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva comprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva di misurarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi, come avesse nelle gambe la canna dell'agrimensore... E ordinava "bisogna far questo e quest'altro" per usare del suo diritto, e non confessare che suo figlio potesse aver la testa più fine della sua… Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent'anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. - Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! La coltura dei fondi, il commercio delle derrate, il rischio delle terre prese in affitto, le speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui!... - Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del figliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!... - Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d'inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell'aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all'ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare…"

E così via finché la figura di Gesualdo non balza ormai padrona dell'attenzione del lettore.

Il romanzo, infatti, inizia con la fortuna di Gesualdo Motta già consolidata ed egli si avvia al matrimonio con la nobildonna Bianca Trao, la cui famiglia d’appartenenza è in rovina. Gesualdo suppone che questo matrimonio possa aprirgli le porte del mondo aristocratico del paese e stringere così legami con la gente che conta.

In realtà il mondo aristocratico della moglie non lo accetterà mai poiché lo disprezza per le sue umili origini e Bianca Trao, la moglie, presto inizia una relazione con il cugino Ninì Rubiera ed ecco che succede quando il fratello di lei, Diego, va a parlare con la madre del Rubiera:

“Bianca! Mia sorella!. È capitata una gran disgrazia alla mia povera sorella!... Ah, cugina Rubiera!... voi che siete madre!... Adesso la cugina aveva tutt'altra faccia anche lei: le labbra strette per non lasciarsi scappar la pazienza, e una ruga nel bel mezzo della fronte: la ruga della gente che è stata all'acqua e al sole per farsi la roba - o che deve difenderla. In un lampo le tornarono in mente tante cose alle quali non aveva badato nella furia del continuo da fare: qualche mezza parola della cugina Macrì; le chiacchiere che andava spargendo don Luca il sagrestano; certi sotterfugi del figliuolo. A un tratto si sentì la bocca amara come il fiele anch'essa. - Non so, cugino, - gli rispose secco secco. - Non so come ci entri io in questi discorsi... Don Diego stette un po' a cercare le parole, guardandola fisso negli occhi che dicevano tante cose, in mezzo a quelle lagrime di onta e di dolore, e poi nascose di nuovo il viso fra le mani, accompagnando col capo la voce che stentava a venir fuori: - Sì!... sì!... Vostro figlio Ninì!... La baronessa stavolta rimase lei senza trovar parola, con gli occhi che le schizzavano fuori dal faccione apoplettico fissi sul cugino Trao, quasi volesse mangiarselo; …”

La legge del più forte vale anche tra persone di nobili origini e Verga, con una spietatezza tutta sua, fa risaltare l’ipocrisia e la grossolanità di gente che, dovrebbe e vorrebbe apparire fine ed aristocratica.

Il brano del secondo capitolo del romanzo in oggetto continua in modo sempre più crudo ed inequivocabile:

“…La baronessa si asciugava le labbra amare come il fiele col fazzoletto di cotone: - No! questa non me l'aspettavo!... dite la verità, cugino don Diego, che non me la meritavo!... Vi ho sempre trattati da parenti... E quella gatta morta di Bianca che me la pigliavo in casa giornate intere... come una figliuola... - Lasciatela stare, cugina Rubiera! - interruppe don Diego, con un rimasuglio del vecchio sangue dei Trao alle guance. - Sì, sì, lasciamola stare! Quanto a mio figlio ci penserò io, non dubitate! Gli farò fare quel che dico io, al signor baronello... Birbante! assassino! Sarà causa della mia morte!...”
“…La baronessa, infine, si asciugò gli occhi, e sospirò rivolta al crocifisso: - Sia fatta la volontà di Dio! Anche voi, cugino Trao, dovete aver la bocca amara! Che volete: Tocca a noi che abbiamo il peso della casa sulle spalle!... Dio sa se della mia pelle ho fatto scarpe, dalla mattina alla sera! se mi son levato il pan di bocca per amore della roba!... E poi tutto a un tratto, ci casca addosso un negozio simile!... Ma questa è l'ultima che mi farà il signor baronello!... L'aggiusterò io, non dubitate! Alla fin fine non è più un ragazzo! Lo mariterò a modo mio... La catena al collo, là! quella ci vuole!... Ma voi, lasciatemelo dire, dovevate tenere gli occhi aperti, cugino Trao!... Non parlo di vostro fratello don Ferdinando, ch'è uno stupido, poveretto, sebbene sia il primogenito... ma voi che avete più giudizio... e non siete un bambino neppur voi! Dovevate pensarci voi!... Quando si ha in casa una ragazza... L'uomo è cacciatore, si sa!... A vostra sorella avreste dovuto pensarci voi... o piuttosto lei stessa... Quasi quasi si direbbe... colpa sua!... Chissà cosa si sarà messa in testa?... magari di diventare baronessa Rubiera... Il cugino Trao si fece rosso e pallido in un momento. - Signora baronessa... siamo poveri... è vero... Ma quanto a nascita... - Eh, caro mio! la nascita... gli antenati... tutte belle cose... non dico di no... Ma gli antenati che fecero mio figlio barone... volete sapere quali furono?... Quelli che zapparono la terra!... Col sudore della fronte, capite? Non si ammazzarono a lavorare perché la loro roba poi andasse in mano di questo e di quello... capite?...”

Appare fin troppo chiaro che la religione della roba, quella già vista con Mazzarò non dà scampo a nessuno. Anche la baronessa Rubiera non è disposta a dare niente per niente e così i suoi pari che comunque si considerano migliori di Gesualdo Motta.

Il matrimonio tra Gesualdo e Bianca è combinato dal canonico Lupi, questi lo convince che un matrimonio di tal fatta può soltanto avvantaggiarlo visto che don Gesualdo vuol concorrere all’asta per l’affitto delle terre comunali.
I maggiorenti del paese gli sarebbero stati contro, ma se fosse diventato loro parente no di certo.
Gesualdo suppone quindi il suo tornaconto, certamente non è un’anima pura, ma non sa che Bianca Trao accetterà soltanto perché incinta.

Al matrimonio tra Gesualdo Motta e Bianca sono pochi i parenti che si presentano. Verga fa risultare la scena imbarazzante e per certi versi patetica. Non essendoci il narratore onnisciente a fare percepire l’ipocrisia del parentado nobile di Bianca egli usa un personaggio dal comportamento ironico e dal dire pungente: il marchese Limoli.
Costui non risparmia strali né alla gente comune né a sé stesso e tanto meno ai parenti nobili. Nel capitolo settimo con leggerezza a Santo Motta, fratello di Gesualdo, che lo saluta con un “bacio le mani” dice:

“…- Servo, servo, caro don Santo!... Non baciate più nulla... ora siamo parenti. …”.

Come detto sopra parenti da ambo le parti ce n’erano pochi, tutti provavano, probabilmente, invidia, gelosia, vergogna.

“…In cima alla scala comparve anche donna Sara Cirmena, la sola di tutto il parentado della sposa che si fosse degnata di venire, con un moggio di fiori finti in testa, il vestito di seta che aveva preso le pieghe come la carta, nel cassettone, i pendagli di famiglia che le strappavano le orecchie, seccata di aspettare da un gran pezzo in un bagno di sudore, …”.

I nuovi parenti di Gesualdo, quelli che almeno sembrano averlo accettato, con i loro commenti fanno percepire in modo netto di apprezzare la sua ricchezza:

“…- Belli! belli!... Una casa signorile! Siete stati fortunati di potervi cacciare nel nido dei La Gurna!... Eh! eh!... Se ne videro qui delle feste... in questo stesso luogo!... Mi rammento... pel battesimo dell'ultimo La Gurna... Corradino... Adesso sono andati a stare a Siracusa, tutta la famiglia, dopo aver dato fondo a quel po' che rimaneva!... Mors tua vita mea!... Qui starete da principi!... Eh! eh!... son vecchio e la so lunga!... Ci staremmo bene anche noi, eh, donna Sarina?... eh? … ”

ed ancora:

“…- No, no, è meglio star seduti in una bella sedia soffice come questa, che andare a buscarsi il pane di qua e di là, come i La Gurna!... quando si può buscarselo anche!... E avere una buona tavola apparecchiata, e la carrozza per far quattro passi dopo, e la vigna per la villeggiatura, e tutto il resto!... La buona tavola soprattutto!... Son vecchio, e mi dispiace che il marchesato non possa servirsi in tavola... Il fumo è buono soltanto in cucina... La so lunga... C'è più fumo nella cucina, che arrosto sulla tavola in molte case... quelle che ci hanno lo stemma più grosso sul portone... e che arricciano più il naso!... Se torno a nascere, voglio chiamarmi mastro Alfonso Limòli, ed esser ricco come voi, nipote mio... Per godermi i miei denari fra me e me... senza invitar nessuno... no!..”

Ma i fratelli di Bianca non ammettono che la sorella con tanto di blasone, possa sposare un muratore dalle mani callose e sempre bruciate dalla calce, e a merito di Gesualdo Motta non c’è neanche il fatto che sia ricco e possidente, perché per loro gli unici valori sono quelli del lignaggio e della casata:

“ …- Par d'essere appestati!... - borbottò donna Sarina che rientrava col borsone pieno insieme al canonico Lupi. - Neppure i suoi fratelli son venuti!... avete visto?... - Poveretti!... poveretti!... - rispose l'altro agitando la mano dinanzi alla fronte, come a dire che coloro non ci avevano più la testa a segno. Poi si guardò intorno abbassando la voce: - Sembrava che piangessero il morto, quando siamo andati a prendere la sposa!... due gufi, tale e quale!... Si rintanavano di stanza in stanza, al buio... Due gufi, tale e quale!... Donna Bianca, invece, voleva fare le cose con bella maniera... almeno pei riguardi umani!... Infine se si è indotta a questo passo...…. La moglie del sagrestano, che non si era accorta della sposa aggiunse: - Sono ancora lì, tutti e due, dietro i vetri della finestra, al buio, a guardare in piazza dove non c'è nessuno!. come due mummie addirittura!. Donna Bianca, nel passare, udì quelle parole. …”

Gesualdo Motta è amareggiato dal fatto che il matrimonio non è stata la festa che si supponeva e i pochi invitati presenti non disdegnano dal far commenti.
Inoltre, quelli che avrebbero dovuto essere gli invitati stanno fuori a guardare le sale illuminate del palazzo che Gesualdo ha preso in affitto per l’occasione. Quando il marchese Limoli si congeda, tra i due avviene un significativo dialogo:

“…Don Gesualdo li accompagnò sino all'uscio, solleticato internamente dai complimenti del canonico, il quale non finiva dal dirgli che aveva fatto le cose ammodo: - Peccato che non sieno venuti tutti gli invitati! Avrebbero visto che spendete da Cesare. Mi sorprende per la signora Sganci!... Anche la baronessa Rubiera sarebbe stata contenta di vedere come le rispettate la nipote... che non siete di quelli che hanno il pugno stretto... giacché dovete esser soci fra poco. - Eh! eh! - rispose don Gesualdo che si sentiva ribollire in quel punto i denari male spesi. - C'è tempo! c'è tempo! Ne deve passare prima dell'acqua sotto il ponte che non c'è più... Diteglielo pure, alla signora baronessa. - Come? come? Se era cosa intesa? Se dovete esser soci? - I miei soci son questi qua! - ripeté don Gesualdo battendo sul taschino. - Non vorrei che la signora baronessa Rubiera avesse a vergognarsi d'avermi per compagno... diteglielo pure! - Ha ragione! - aggiunse il marchese fermandosi a metà della scala. - Ha l'amor proprio dei suoi denari, che diavolo!... La cugina Rubiera avrebbe potuto degnarsi... Non si sarebbe guastato il sangue per così poco, lei!... - Chissà? chissà perché non è venuta?... Ci dev'essere qualch'altro motivo... Poi, gli affari... è un'altra cosa... Pensateci bene!... Vi mancherà un appoggio!... Li avrete tutti nemici allora!... - Tutti nemici... oh bella! perché? - Pei vostri denari, caspita!... Perché potete mettere anche voi le mani nel piatto!... Poi vi siete imparentato con loro!... Uno schiaffo, caro mio! Uno schiaffo che avete dato a tutti quanti! - Sapete cosa ho da dirvi? - si mise a strillare allora il marchese levando il capo in su. - Che se non avessi il vitalizio della mia commenda di Malta per non crepare di fame, sarei costretto a dare uno schiaffo anch'io a tutta la nobile parentela... Sarei costretto a scopar le strade!...”

L’orgoglio rabbioso di Gesualdo Motta spesso straripa vendicativo come all’apertura della seconda parte del romanzo, all’asta per le terre comunali nel quale Gesualdo è sé stesso davanti ai notabili del paese:

“…Allora si alzò in piedi il baronello Rubiera, pettoruto, lisciandosi la barba scarsa, senza badare ai segni che gli faceva da lontano don Filippo, e lasciò cadere la sua offerta, coll'aria addormentata di uno che non gliene importa nulla del denaro: - Cinque onze e sei!... Dico io!... - Per l'amor di Dio, - gli soffiò nelle orecchie il notaro Neri tirandolo per la falda. - Signor barone, non facciamo pazzie!... - Cinque onze e sei! - replicò il baronello senza dar retta, guardando in giro trionfante. - Cinque e quindici. Don Ninì si fece rosso, e aprì la bocca per replicare; ma il notaro gliela chiuse con la mano. Margarone stimò giunto il momento di assumere l'aria presidenziale. - Don Gesualdo!... Qui non stiamo per scherzare!... Avrete denari... non dico di no... ma è una bella somma... per uno che sino a ieri l'altro portava i sassi sulle spalle... sia detto senza offendervi... Onestamente... "Guardami quel che sono, e non quello che fui" dice il proverbio... Ma il comune vuole la sua garanzia. Pensateci bene!... Sono circa cinquecento salme... Fanno... fanno... - E si mise gli occhiali, scrivendo cifre sopra cifre. - So quello che fanno, - rispose ridendo mastro-don Gesualdo. - Ci ho pensato portando i sassi sulle spalle... Ah! signor don Filippo, non sapete che soddisfazione, essere arrivato sin qui, faccia a faccia con vossignoria e con tutti questi altri padroni miei, a dire ciascuno le sue ragioni, e fare il suo interesse! Don Filippo posò gli occhiali sullo scartafaccio; volse un'occhiata stupefatta ai suoi colleghi a destra e a sinistra, e tacque rimminchionito. Nella folla che pigiavasi all'uscio nacque un tafferuglio. …. - Va bene!... va benissimo!... Ma intanto la legge dice... Come seguitava a tartagliare, quella faccia gialla di Canali gli suggerì la risposta, fingendo di soffiarsi il naso. - Sicuro!... Chi garantisce per voi?... La legge dice... - Mi garantisco da me, - rispose don Gesualdo posando sulla scrivania un sacco di doppie che cavò fuori dalla cacciatora. …”

Gesualdo esibendo la sua tangibile ricchezza dà veramente uno schiaffo alla comunità nobiliare del paese di Vizzini, fra l’altro il suo comportamento non è diverso da quello degli altri è soltanto più autentico e diretto ma obbedisce in ugual modo alla legge del profitto, a quella religione della roba, dell’accumulo che faceva sentire, ed ancora fa sentire, al sicuro la gente che aveva ed ha poca ricchezza interiore; che non poteva e non può, sentirsi sicura se non avesse avuto e non avesse, quella che un tempo al sud si chiamava “roba” e che oggi in tutto il mondo si chiama “capitale”.

Da un personaggio come Mazzarò e come Gesualdo ci si aspetta un comportamento del genere senza che scandalizzi più di tanto; ma Verga ci vuol far vedere la pochezza interiore di quella nobiltà ricca che, in un certo modo avrebbe dovuto essere la guida sociale e politica di una nazione.

Non dimentichiamo che Verga non affranca nessuno dalla lotta per la vita.

Il periodo in cui è ambientato il romanzo è quello borbonico anteriore l'unità d’Italia. Quella che avrebbe dovuto essere la classe dirigente si comporta in modo meschino e da parassita.

La figura di Gesualdo ne viene fuori quasi eroica, vi sono momenti in cui la percezione è quella del protagonista che non ha pace e per certi versi si rifiuta di trovarla dove dovrebbe.

Mentre nella novella La roba, Mazzarò è un uomo solo, senza affetti o famiglia, solo la roba, Gesualdo Motta ha una famiglia: padre, fratello e sorella, il cui aspetto prevalente è quello dell’avidità.
Esemplare è l’atteggiamento della sorella quando si tratta di spartire l’eredità del padre morto, finge che il padre possedesse di più, quasi non sapesse che quella che lei diceva essere la fortuna del padre era dovuta al lavoro indefesso di Gesualdo.

“…Intanto bisognava pensare a seppellire il morto, senza un cane che aiutasse, a pagarlo tant'oro! Un falegname, lì al Camemi, mise insieme alla meglio quattro asserelle a mo' di bara, e mastro Nardo scavò la buca dietro la casa. Poi Santo e don Gesualdo dovettero fare il resto colle loro mani. Burgio però stava a vedere da lontano, timoroso del contagio, e sua moglie piagnucolava che non le bastava l'animo di toccare il morto. Le faceva male al cuore, sì! Dopo, asciugatisi gli occhi, rifatto il letto, rassettata la casa, nel tempo che mastro Nardo preparava le cavalcature, e aspettavano seduti in crocchio, ella attaccò il discorso serio. - E ora, come restiamo intesi? Tutti quanti si guardarono in faccia a quell'esordio. Massaro Fortunato tormentava la nappa della berretta, e Santo sgranò gli occhi. Don Gesualdo però non aveva capito l'antifona, col viso in aria, cercava il verbo. - Come restiamo intesi? Perché? Di che cosa? - Per discorrere dei nostri interessi, eh? Per dividerci l'eredità che ha lasciato quella buon'anima, tanto paradiso! Siamo tre figliuoli... Ciascuno la sua parte... secondo vi dice la coscienza... Voi siete il maggiore, voi fate le parti... e ciascuno di noi piglia la sua... Però se ci avete il testamento... Non dico... Allora tiratelo fuori, e si vedrà. Don Gesualdo, che era don Gesualdo, rimase a bocca aperta a quel discorso. Stupefatto, cercava le parole, balbettava: - L'eredità?... Il testamento?... La parte di che cosa?... Allora Speranza infuriò. - Come? Di questo si parlava. Non erano tutti figli dello stesso padre? E il capo della casa chi era stato? Sinora aveva avuto le mani in pasta don Gesualdo, vendere, comprare... Ora, ciascuno doveva avere la sua parte. Tutto quel ben di Dio, quelle belle terre, la Canziria, la Salonia stessa dove avevano i piedi, erano forse piovuti dal cielo? - Burgio, più calmo, metteva buone parole; diceva che non era quello il momento, col morto ancora caldo. Tappava la bocca alla moglie; cacciava indietro il cognato Santo, il quale aveva aperto tanto d'orecchi e vociava: - No, no, lasciatela dire! - Infine volle che si abbracciassero, lì, nella stanza dove erano rimasti poveri orfanelli. Don Gesualdo era un galantuomo, un buon cuore. Non l'avrebbe fatta una porcheria. - Non scappate! Sentite qua! Non è vero? Non siete un galantuomo? - No! no! Lasciatemi sentire quello che pretendono. È meglio spiegarsi chiaro. Ma la sorella non gli dava più retta, seduta su di un sasso, fuori dell'uscio, borbottando fra di sé. …”.

Gesualdo sposa Bianca ma non ha felicità coniugale come non ha la felicità paterna che la figlia Isabellina avrebbe potuto dargli.
L'unico affetto che ha Gesualdo Motta è quello di Diodata, un affetto che però lui non vuole riconoscere.
Diodata era un’orfana che lavorava per Gesualdo con la quale egli ha avuto dei figli illegittimi abbandonati all’orfanotrofio.
Diodata non può pretendere di farsi sposare da Gesualdo perché nettamente inferiore socialmente a lui. Quando Gesualdo decide di sposare Bianca Trao prepara una dote per Diodata per farla sposare con uno dei suoi uomini.
In pratica Gesualdo compie verso Diodata quell’ingiustizia che era stata compiuta verso di lui dai parenti di Bianca. L’amore che Diodata prova verso il suo padrone è totale quanto sincero, fino alla fine è l’unico essere umano che apprezza Gesualdo per quello che è:

“… - Sai? Vogliono che prenda moglie. La ragazza non rispose; egli non badandoci, seguitò: - Per avere un appoggio... Per far lega coi pezzi grossi del paese... Senza di loro non si fa nulla!... Vogliono farmi imparentare con loro... per l'appoggio del parentado, capisci?... Per non averli tutti contro, all'occasione... Eh? che te ne pare? Ella tacque ancora un momento col viso nelle mani. Poi rispose, con un tono di voce che andò a rimescolargli il sangue a lui pure: - Vossignoria siete il padrone... - Lo so, lo so... Ne discorro adesso per chiacchierare... perché mi sei affezionata... Ancora non ci penso... ma un giorno o l'altro bisogna pure andarci a cascare... Per chi ho lavorato infine?... Non ho figliuoli... Allora le vide il viso, rivolto a terra, pallido pallido e tutto bagnato. - Perché piangi, bestia? - Niente, vossignoria!... Così!... Non ci badate... - Cosa t'eri messa in capo, di'? - Niente, niente, don Gesualdo... - Santo e santissimo! Santo e santissimo! - prese a gridare lui sbuffando per l'aia. - Perché v'arrabbiate, vossignoria?... Cosa vi ho detto?... - M'arrabbio colla mia sorte!... Guai e seccature da per tutto... dove vado!... Anche tu, adesso!... col piagnisteo!... Bestia!... Credi che, se mai, ti lascerei in mezzo a una strada... senza soccorsi?. Nossignore... non è per me... Pensavo a quei poveri innocenti... - Anche quest'altra?... Che ci vuoi fare! Così va il mondo!... Poiché v'è il comune che ci pensa!... Deve mantenerli il comune a spese sue... coi denari di tutti!... Pago anch'io!... So io ogni volta che vo dall'esattore!... Si grattò il capo un istante, e riprese: - Vedi, ciascuno viene al mondo colla sua stella... Tu stessa hai forse avuto il padre o la madre ad aiutarti? Sei venuta al mondo da te, come Dio manda l'erba e le piante che nessuno ha seminato. Sei venuta al mondo come dice il tuo nome... Diodata! Vuol dire di nessuno!... E magari sei forse figlia di barone, e i tuoi fratelli adesso mangiano galline e piccioni! Il Signore c'è per tutti! Hai trovato da vivere anche tu!... E la mia roba?... me l'hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!... Io ho il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla... In tal modo seguitava a brontolare, passeggiando per l'aia, su e giù dinanzi la porta. Poscia vedendo che la ragazza piangeva ancora, cheta cheta per non infastidirlo, le tornò a sedere allato di nuovo, rabbonito. - Che vuoi? Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone... come quando ero un povero diavolo senza nulla... Ora ci ho tanta roba da lasciare... Non posso andare a cercar gli eredi di qua e di là, per la strada... o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire che i figliuoli che avrò poi, se Dio m'aiuta, saranno nati sotto la buona stella!... - Vossignoria siete il padrone... Egli ci pensò un po' su, perché quel discorso lo punzecchiava ancora peggio di una vespa, e tornò a dire: - Anche tu... non hai avuto né padre né madre... Eppure cosa t'è mancato, di'? - Nulla, grazie a Dio! - Il Signore c'è per tutti... Non ti lascerei in mezzo a una strada, ti dico!... La coscienza mi dice di no... Ti cercherei un marito... - Oh... quanto a me... don Gesualdo!... - Sì, sì, bisogna maritarti!... Sei giovane, non puoi rimaner così... Non ti lascerei senza un appoggio... Ti troverei un buon giovane, un galantuomo... Nanni l'Orbo, guarda! Ti darei la dote... - Il Signore ve lo renda... - Son cristiano! son galantuomo! Poi te lo meriti. Dove andresti a finire altrimenti?... Penserò a tutto io. Ho tanti pensieri pel capo!... e questo cogli altri!... Sai che ti voglio bene. Il marito si trova subito. Sei giovane... una bella giovane... Sì, sì, bella!... lascia dire a me che lo so! Roba fine!... sangue di barone sei, di certo!... Ora la pigliava su di un altro tono, col risolino furbo e le mani che gli pizzicavano. Le stringeva con due dita il ganascino. Le sollevava a forza il capo, che ella si ostinava a tener basso per nascondere le lagrime. - Già per ora son discorsi in aria... Il bene che voglio a te non lo voglio a nessuno, guarda!... Su quel capo adesso, sciocca!... sciocca che sei!... Come vide che seguitava a piangere, testarda, scappò a bestemmiare di nuovo, simile a un vitello infuriato. - Santo e santissimo! Sorte maledetta!... Sempre guai e piagnistei!...”.

Sembra che Gesualdo voglia veramente bene a Diodata, e se non la sposa è perché anche lui è vittima delle convenzioni. Don Gesualdo è vinto due volte prima dalla società che impone un codice duro anche ai sentimenti, non dimentichiamo l'amore negato tra Alfio Mosca e Mena Malavoglia, poi è vinto dal destino perché capisce alla fine della sua vita che i suoi beni, la sua adorata "roba" finirà nelle mani di un aristocratico vanesio e libertino quale il genero.

Se Gesualdo avesse messo su famiglia con Diodata forse sarebbe andata diversamente, se avesse abbandonato il calcolo cinico dell'interesse, se invece di cercare un blasone di seconda mano fosse stato più sé stesso ed avesse dato retta ai suoi veri sentimenti non sarebbe morto solo e malato in una stanza, tra l’indifferenza dei servi, nel palazzone del genero:

“…A un tratto s'irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s'affacciò a prendere una boccata d'aria, fumando. Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra. - Mattinata, eh, don Leopoldo? - E nottata pure! - rispose il cameriere sbadigliando. - M'è toccato a me questo regalo! L'altro scosse il capo, come a chiedere che c'era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n'era andato, grazie a Dio. - Ah... così... alla chetichella?... - osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l'androne. Degli altri domestici s'erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po' la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto. - Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica... E neanche lui... non vi mette più le mani addosso di sicuro... - Zitto, scomunicato!... No, ho paura, poveretto... - Ha cessato di penare. - Ed io pure, - soggiunse don Leopoldo.- Si vede com'era nato... - osservò gravemente il cocchiere maggiore. - Guardate che mani! - Già, son le mani che hanno fatto la pappa!... Vedete cos'è nascer fortunati... Intanto vi muore nella battista come un principe!... - Allora, - disse il portinaio, - devo andare a chiudere il portone? - Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa.”

Quando Gesualdo si accorge di essere malato decide di andare a Mangalavite per un ultimo saluto alle sue proprietà più amate, lì ha un attimo di scoramento si rende conto che tutto è perduto e come Mazzarò comincia a bastonare anatre e tacchini:

“…Allora, disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d'un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui. Mastro Nardo e il garzone dovettero portarlo di nuovo in paese, più morto che vivo. …”

Al momento di partire per la città verso la casa della figlia ecco sotto la pioggia arrivare Diodata per un ultimo saluto, umile e palesemente amorosa verso il suo amato padrone:

“…In via della Masera si udì gridare: - Fermate! fermate! - E apparve Diodata, ché voleva salutare don Gesualdo l'ultima volta, lì, davanti il suo uscio. Però, giunta vicino a lui, non seppe trovare le parole, e rimaneva colle mani allo sportello, accennando col capo. - Ah, Diodata... Sei venuta a darmi il buon viaggio?... - disse lui. Essa fece segno di sì, di sì, cercando di sorridere, e gli occhi le si riempirono di lagrime. - Povera Diodata! Tu sola ti rammenti del tuo padrone.. Affacciò il capo allo sportello, cercando forse degli altri, ma siccome pioveva lo tirò indietro subito. - Guarda che fai!... sotto la pioggia... a capo scoperto!... È il tuo vizio antico! Ti rammenti, eh, ti rammenti? - Sissignore, - rispose lei semplicemente, e continuava ad accompagnare le parole coi cenni del capo. - Sissignore, fate buon viaggio, vossignoria. Si staccò pian piano dalla lettiga, quasi a malincuore, e tornò a casa, fermandosi sull'uscio, umile e triste...”.

Non è presente nessuna lacrimosità o sentimentalismo. È soltanto una realtà. Il nuovo possidente siciliano della metà ottocento non aveva abbastanza fiducia in sé stesso, forse non era neanche consapevole di appartenere ad una classe sociale forte che era destinata a dominare.

Gesualdo diventa così, insieme a Mazzarò e ai tanti non documentati, esempio di una borghesia che non trova in sé ragione d’essere. Gli manca l’orgoglio di ciò che è e di ciò che ha saputo fare.
Il nascente borghese siciliano pensava soltanto a sé come individuo e non si poneva come nuova classe sociale, rimaneva contadino nell’animo, in senso negativo, era attaccato al proprio benessere immediato senza rendersi conto di far parte di una collettività.

[modifica] Voci correlate

Giovanni Verga (1840 - 1922)
Opere: Rosso Malpelo (esempi di straniamento) - Ciclo dei Vinti: I Malavoglia (esempi di straniamento) - Mastro-don Gesualdo (tecniche narrative)
Corrente letteraria e pensiero: Naturalismo - Verismo (confronto tra le due correnti) - Mito dell'ostrica - Darwinismo sociale
Tecniche narrative: Discorso indiretto libero - Straniamento - Impersonalità dell'autore - Verismo dello spazio
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