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Alcibiade (dialogo)

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Frammento papiraceo dell'Alcibiade.
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Frammento papiraceo dell'Alcibiade.

L'Alcibiade primo è definito un libro dubbio. Sebbene non ci sia totale accordo sulla sua non autenticità, come ad esempio per l'Alcibiade secondo, ci sono varie cose che stonano: ad esempio l'inusitata arrendevolezza di Alcibiade (anche se questo potrebbe essere giustificato dalla giovane età del personaggio, non ha nulla a che vedere con l'Alcibiade del Simposio, irrazionale ed estremamente sicuro di sé) e il dialogo di Socrate, il quale appare sin troppo fedele a sé stesso. C'è una notevole somiglianza, infatti, tra il Socrate quasi stereotipato dell'Alcibiade e quello di Senofonte, che certo non era né si definiva un filosofo.

Il dialogo è ambientato presumibilmente nel 430 a.C., poiché Alcibiade è nato nel 450 a.C. e qui lo si presenta come un giovane appena arrivato alla maggiore età, alla vigilia del suo esordio nella vita politica di Atene. Personalità controversa, Alcibiade fu la rovina di Socrate con le sue follie, come la mutilazione delle Erme, e il tradimento nei confronti della città, essendosi rifugiato a Sparta per evitare il conseguente processo, e da qui preparando poi la rivoluzione oligarchica per rovesciare la democrazia nel frattempo instaurata. Egli fu stratega in varie battaglie, e morì nel 404 a.C. per opera di un satrapo.

L'Alcibiade inizia con il riassunto di Socrate; egli era innamorato di Alcibiade, giovane bello, ricco e di famiglia quasi divina, ma il suo daimonion (demone interiore) gli aveva impedito di farsi avanti; nel frattempo, tutti gli altri pretendenti si erano fatti sotto, ottenendo però solo lo scherno del giovane. Il demone gli toglie la proibizione di parlargli, in vista del prossimo ingresso di Alcibiade nell'assemblea del popolo. Il giovane è infatti determinato a essere coperto di onori come nessuno prima (nemmeno il suo protettore Pericle) e conquistare il mondo: non accetterebbe di vivere se sapesse che qualcosa gli è precluso; Al suo ingresso nella politica, pertanto, consiglierà da subito gli ateniesi sulle questioni più importanti, come la guerra: quando farla e quando non farla. Socrate gli fa ammettere che il solo campo su cui si possa dare consiglio è quello in cui si è sapienti; ma Alcibiade non ha mai imparato altro che il suonare, lo scrivere e il lottare. Come può pertanto consigliare gli ateniesi sulla guerra se non conosce nozioni come il giusto o il migliore, fondamento della vita politica? Non può averle imparate da sé come afferma, dato che il motivo che spinge qualcuno a cercare la verità è la cognizione di non sapere: Alcibiade non ricorda neanche un minuto della sua vita in cui non sia stato convinto di sapere, neppure da bambino.

Messo alle strette dal ragionamento socratico, Alcibiade ritratta: non ha imparato da sé, e certo non ha avuto un maestro; ha imparato dalla maggioranza delle persone, come tutti. Come in tutta la produzione platonica, Socrate contesta il criterio della maggioranza: la vera sapienza non può essere messa in discussione, perché indubbia. Eppure su nozioni quale il giusto, la massa si trova sempre divisa: pertanto, nessuno di loro può essere davvero cosciente di cosa sia il giusto, altrimenti saprebbe dirlo in maniera che tutti lo riconoscano e ci si attengano. Alcibiade, nella lunga esposizione del discorso da parte di Socrate acconsente in tutto; ma alla fine del ragionamento, in maniera un po' infantile, non riconosce le sue parole, e sostiene che sia solo Socrate a concludere che la massa non sa. Questi lo incalza: Alcibiade era d'accordo in ogni punto del ragionamento, pertanto smentendolo smentisce sé stesso.

Il giovane tenta la scappatoia: gli ateniesi, quando deliberano dei massimi affari, non si interrogano mai sul giusto e sull'ingiusto, ma sull'utile e il dannoso. Socrate gli fa notare che giusto e utile coincidono, e se c'è differenza la si deve spiegare. Ma come, se non conosce il giusto? E anche l'utile, non è una nozione che deve aver imparato da qualcuno o scoperto da sé? Eppure Alcibiade non la considera un argomentazione valida; capriccioso, infantile ed estremamente sicuro di sé stesso, quando gli viene fatto notare un suo errore con un ragionamento, non accetta che lo si applichi anche ad altro. Socrate, per evitare che egli fugga il discorso, accantona questo passo: non gli importa sapere se egli conosca l'utile; esorta invece Alcibiade a spiegargli la differenza tra utile e giusto. Se può riconoscere questa differenza nell'assemblea, deve essere capace di spiegarlo, come all'assemblea così a Socrate; il giovane ovviamente non riesce a spiegarsi, e deve essere Socrate a guidarlo.

Il giusto e l'utile non coincidono, secondo Alcibiade. Se soccorresse un compagno e morisse, farebbe un'azione giusta ma non utile (cioè gli apporterebbe dei mali, in questo caso la morte), ma egli ritiene la vigliaccheria un male supremo, e non accetterebbe di vivere se dovesse farlo con viltà. Anche se morisse, quindi, sarebbe un'azione utile, cioè che apporta dei beni all'anima. Alcibiade conviene che la cosa più importante nella vita sia il vivere bene, e che esso sia possibile solo facendolo nel giusto; pertanto, il giusto è anche l'utile. La rivelazione, giunta dopo un lungo dialogo, lo sconvolge; egli non è più certo di nulla di quanto affermasse in precedenza. Socrate lo porta gradualmente a fargli comprendere che il motivo dei suoi sbagli è la presunzione di sapere: su cose che sa di non sapere, come l'arte del navigare, egli non si intromette, e non rischia di sbagliare. Ma se sbaglia su qualcosa, è perché non sa e credendo di sapere si intromette: ad Alcibiade non resta che ammettere la propria ignoranza e la sua presunzione.

Ma questo non basta a farlo desistere dalle sue idee; seppur riconosca i suoi difetti, sa che gli altri cittadini e uomini politici sono ignoranti almeno quanto lui, pertanto le sue doti naturali gli possono bastare per prevaricarli. Socrate contesta: sin dall'inizio del dialogo, Alcibiade ha chiarito che non accetterebbe di vivere sapendo che qualcosa gli sarebbe precluso. E se anche da ignorante potrebbe contare sulle sue doti naturali per prevaricare gli altri ateniesi, come potrebbe fare affidamento su di queste per imporsi agli altri re, quelli di Sparta e di Persia? Essi hanno infatti tutte le doti su cui punta Alcibiade: ricchezza, bellezza, discendenza divina in misura molto maggiore del ragazzo. E sin dalla nascita godono di un'educazione sopraffina, che Alcibiade non ha avuto. Pertanto non potrà avere la minima speranza di prevaricare su di essi se non educandosi nelle cose in cui gli ateniesi sono rinomati: sollecitudine e abilità. Socrate gli offre il suo aiuto: egli è sì ignorante, ma guidato dal demone può aiutarlo a migliorarsi.

Come di consueto nel dialogo socratico, appena stabilito un punto si procede all'esame dello stesso: Alcibiade vuole migliorarsi per essere degno di ben governare lo stato, pertanto dovrà sapere cosa rende lo stato ben governato, in modo da migliorare il lato di sé stesso che glielo permetta. Dapprima definisce il buon governo come uno in cui non ci siano fazioni e tutti abbiano un rapporto di amicizia. Alla richiesta di precisazioni da parte di Socrate, Alcibiade definisce l'amicizia come concordia. Spesso però gli uomini non sono concordi su cose che non gli competono, ad esempio sulla lavorazione della lana: è un arte delle donne. Perciò se per Alcibiade l'amicizia è concordia, dobbiamo dedurre che gli uomini non provino affetto per le mogli, nel momento in cui questa tessono la lana. Oltre a suonare assurda, questa idea implica un altro problema: se non c'è concordia quando ognuno fa le cose di sua competenza, uno stato retto dalla concordia è uno stato in cui nessuno può fare quel che gli compete. Alcibiade ritratta confusamente la sua definizione di amicizia, ma è incapace di darne una nuova. E lascia anche cadere l'idea che lo stato sia governato dalla stessa.

È qui che Socrate gli viene in soccorso: egli deve migliorare, quindi prendersi cura di sé stesso. Per fare questo, deve determinare di cosa si debba prendere cura, cioè conoscere sé stesso (citazione della scritta sul tempio di Delfi). Il passo successivo è quindi l'ovvia definizione di cosa sia l'uomo: attraverso domande e risposte si arriva all'idea che l'uomo sia colui che si serve del proprio corpo, come il calzolaio si serve delle forbici; non potendo essere l'uomo una fusione di anima e corpo, giacché è impossibile che il corpo comandi su sé stesso, l'uomo dovrà forzatamente essere sola anima, e se Alcibiade vuole migliorare deve occuparsi solo della cura di quest'ultima. Per logica, una volta stabilito che Alcibiade deve migliorare la propria anima per ben governare, ne risulta che il buon governo si realizzi quando formato da uomini virtuosi, giacché è indubbio che un anima ben curata sia piena di virtù. Socrate dichiara il proprio amore nei confronti dell'animo del giovane, e lo persuade che il solo modo per cui un uomo possa guardare (e conoscere, di rimando) la propria anima sia osservandone un'altra, e precisamente la parte in cui dimora la virtù, cioè la conoscenza. Alcibiade capisce perciò che solo stando con Socrate ed osservandone l'anima, potrà conoscere la propria e migliorarla.

Il dialogo si chiude con i timori di Socrate: in maniera profetica, egli teme che Alcibiade non riesca ad arrivare alla virtù: non per proprie mancanze, quanto per "la forza dello Stato". Qui Platone vuole fare un evidente apologia di Socrate, condannato proprio dallo stato, e dei suoi insegnamenti. Il tradimento di Atene da parte di Alcibiade, infatti, fu la causa scatenante del processo: è perché Alcibiade (come Crizia) è stato allievo di Socrate che a quest'ultimo viene imputato di corrompere i giovani. Platone rimarca tuttavia che Alcibiade sia diventato un traditore non perché abbia seguito gli insegnamenti di Socrate, quanto perché attratto dalla potenza che gli garantiva lo stato (e mal sopportando di dover ammettere la propria ignoranza, come gli capitava insieme a Socrate – si veda il simposio) abbia lasciato questi ultimi.

[modifica] Voci correlate

Sessualità nell'antica Grecia

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