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Selinunte

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Il Tempio E
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Il Tempio E

Selinunte (greco Selinos, latino Selinus) era una antica città greca sulla costa sud-occidentale della Sicilia.

Indice

[modifica] Storia

Secondo Tucidide, Selinunte fu fondata verso la metà del VII secolo a.C. da coloni greci provenienti da Megara Iblea. Il sito scelto stava sulla costa del Mar Mediterraneo, tra le due valli fluviali del Belice e del Modione.
Il nome deriva dal sedano selvatico (σέλινον in greco) che i coloni vi trovarono in abbondanza. Una pianta di sedano era raffigurata anche sulle monete coniate più tardi a Selinunte.

La città fu l'avamposto occidentale della cultura greca in Sicilia. Si alleò con Cartagine, soprattutto per assicurarsi protezione contro la vicina città elima di Segesta. Ma dopo la disastrosa Campagna di Sicilia degli ateniensi (415-413 a.C.) cambiarono gli equilibri: Segesta, prima alleata di Atene, riuscì ad assicurarsi l'alleanza con i cartaginesi. I selinuntini non avevano colto i segni del cambiamento e distrussero Segesta, che credevano ormai priva di protezione. La reazione di Cartagine fu drastica: secondo Diodoro Siculo la città fu distrutta completamente, su 25.000 abitanti 16.000 morirono e 5.000 furono fatti prigionieri.

Selinunte fu successivamente ricostruita da coloni greci e punici. Nel 250 a.C. Roma, dopo aver vinto la prima guerra punica, distrusse una seconda volta la città, che non si sarebbe più ripresa.

[modifica] Fondazione e insediamento

Selinunte, la colonia greca più occidentale della Sicilia, è una fondazione di Megara Iblea, dedotta ad un secolo di distanza dalla nascita di quest'ultima sulla costa orientale dell'isola. La data precisa della fondazione è tuttavia controversa, poiché circa tale cronologia possediamo due tradizioni contrastanti. Una di esse risale a Tucidide (VI 4, 2), il quale la colloca cent'anni dopo la fondazione di Megara, da lui datata al 728 a.C.; l'altra cronologia, fornitaci da Diodoro Siculo (XIII 59, 4) l'assegna al 651 a.C.. Il dibattito su questa duplice datazione, soprattutto in questi ultimi decenni, dopo gli scavi su grande estensione condotti a Megara Iblea, è stato particolarmente acceso, in relazione con le cronologie del materiale-guida d'età Orientalizzante, ovvero della ceramica proto-corinzia. Le esplorazioni più recenti sembrano favorire la datazione tucididea, peraltro in sostanziale accordo col sistema cronologico ricostruibile per il materiale proto-corinzio più antico sia di Megara (coppa di tipo Thapsos con e senza pannello) che di Selinunte (vasi del Corinzio antico); ma resta sempre non definitivamente risolta, come d'altronde in tutte le colonie greche, la questione se la documentazione archeologica del sito in nostro possesso sia quella più antica in assoluto.

La colonia nacque in ogni caso come sottofondazione megarese, guidata da un ecista, Pammilo, inviato addirittura dalla madrepatria della stessa Megara Iblea; ossia da Megara Nisea in Grecia: la cosa dimostra - se ce n'era bisogno - che la nuova colonia rispondeva a ben precise esigenze di tutta la collettività megarese, individuabili piuttosto nella richiesta di nuove terre, mezzo di produzione fondamentale dell'antichità, che non in vaghe spinte di tipo mercantile. D'altro canto, la collocazione della città è particolarmente eloquente in tal senso: la valle del Selino (oggi Modione) e quella del Cottone, alle cui foci si colloca l'abitato selinuntino, sono soltanto l'estrema propaggine di una vasta estensione di fertili pianure, attraversate dai fiumi Selinos-Modione (ad ovest) e Hypsas-Belice (ad est). È questa la chora, il territorio ampio e ricco della colonia megarese, che un'iscrizione recentemente rinvenuta con dedica ad Ercole farebbe estendere fino a Poggioreale, ad oltre trenta chilometri dalla costa.

L'insediamento venne creato a danno delle popolazioni indigene, sicane ed elime, di cui sembra sia stato scoperto un villaggio nell'area di Manuzza, ossia sulla collina dell'abitato greco adiacente al lato settentrionale dell'acropoli. Tuttavia, i dati relativi a questo villaggio sono al momento ancora poco evidenti (non si può escludere che trattasi dei resti dello stessi iniziale insediamento greco), e non è perciò possibile concludere che la deduzione coloniale ellenica sia avvenuta pacificamente, ossia col consenso delle popolazioni locali, come nel caso della madrepatria Megara. È certo che il rapporto con le popolazioni indigene fu qui come altrove conflittuale, dal momento che le vicende storiche dei quasi duecentocinquant'anni di vita di Selinunte sono punteggiate da scontri con la non lontana capitale elima, Segesta; ma va anche detto che tra Elimi e Selinuntini venne istituito un trattato di epigamia (Tucidide, VI 6, 2), ossia di libero connubio tra i cittadini delle due città, unione che sottintende lo scambio. Ciò naturalmente si può comprendere solo se si valutano la forte ellenizzazione dell'elemento elimo, espressione culturale di un intenso sviluppo delle forze produttive indigene, che avvicina, fino ad assimilarli, due livelli economici originariamente assai diversi.

[modifica] L'urbanistica di Selinunte

La città sorse su di un altopiano calcareo, terminante bruscamente con un tratto di costa alta, assai facilmente difendibile da aggressioni provenienti da un mare in salde mani fenicie. L'altopiano, culminante appunto sul mare con l'acropoli, si prolunga più dolcemente a settentrione, nell'interno, con la collina di Manuzza, anch'essa parte dell'abitato, sin dalla fondazione; ad est e ad ovest l'abitato era lambito dal corso del Cottone e del Selinos (da cui prese il nome della città). In antico, tuttavia, le foci dei due fiumi erano alquanto arretrate rispetto all'attuale linea di costa, cosicché Selinunte poteva godere, sui fianchi orientale ed occidentale, di due ampie insenature destinate ad ospitare due distinti porti. Questa circostanza ha favorito l'espansione dell'insediamento anche sulle colline ad est e ad ovest dell'abitato, dove sono sorti due complessi di natura sacrale: sulla collina orientale si ergono i tre grandiosi templi denominati E, F e G, mentre sulla collina occidentale, detta della Gaggera, si collocano il complesso del santuario della Malophòros e il cosiddetto tempio M, che è da ritenere piuttosto una fontana monumentale. Porto principale era comunque (forse tardivamente) da quell'orientale esteso per circa 600 metri verso l'interno, guarnito anche da un probabile molo o diga protendentesi dall'acropoli (se ne sono visti alcuni blocchi sommersi) e da banchine disposte in senso nord-sud, attualmente insabbiate.

Le necropoli, prive della monumentalità che caratterizza invece quelle della madrepatria Megara Iblea, con sepolture prevalentemente (85-88%) ad inumazione dai corredi non particolarmente sontuosi, sono ad est, a settentrione del moderno villaggio di Marinella, in località Buffa, a nord, oltre la collina di Manuzza, e ad ovest: la necropoli settentrionale, in località Galera-Bagliazzo, è quella più antica, con sepolture in prevalenza del VII-VI secolo a.C., mentre quella occidentale in località Pipio e Manicalunga-Timpone Nero, con sepolture di VI-V secolo a.C., riflette il crescente prestigio del vicino santuario delle divinità infere e ctonie della Gaggera.

L'urbanistica di Selinunte, uno degli esempi più complessi ed articolati, sul piano formale, della Sicilia greca e di tutto il mondo antico, è stata indagata a fondo in questi ultimi anni, soprattutto per verificare il rapporto esistente tra la struttura regolare accertata almeno già dal VI secolo a.C. e il tipo d'impianto realizzato nel tardo VII secolo a.C., all'atto della fondazione o subito dopo. Sull'acropoli, lunga circa 500 metri e larga (estensione massima) 300, l'insediamento è avvenuto sul vergine e la sistemazione dell'impianto urbano si può datare al 580 a.C.: una grande platea al centro dell'altopiano segna l'asse dominante della struttura e conduce fino al monumentale témenos dei templi dell'acropoli, ma senz'oltrepassarlo, incrociando una trasversale ortogonale est-ovest, maggiore delle altre trasversali, poste a distanza di 32 metri l'una dall'altra. Gli isolati tuttavia, a causa della conformazione a mo' di trapezio irregolare dell'acropoli, sono di lunghezza variabile, e si prolungavano fin sull'istmo che collega l'acropoli con la collina di Manuzza. Anche quest'ultima era organizzata secondo un impianto regolare: una gigantesca griglia d'isolati allungati in senso più rigorosamente nord-sud (costantemente di m 190 x 32), che presentava almeno due grandi plateiai nord-sud, quattro est-ovest e da tre a cinque strade minori intermedie, copre l'intera collina di Manuzza e si prolunga verso la valle del Cottone a nord-est e sud-est, costituendo un sistema esteso per oltre 1600 x 600 m, una vera e propria megalopoli. L'occupazione delle pendici di Manuzza ha un preciso contrappunto in quella delle zone portuali, soprattutto ad ovest, dove sorsero, con monumentali terrazzamenti, i quartieri collegati alle attività emporiche: a questa sistemazione, che si deve probabilmente ad epoca posteriore al primo impianto urbanistico regolare, si riferisce forse la tradizione (Diogene Laerzio, VIII 70), secondo la quale il filosofo Empedocle avrebbe guidato la bonifica dei fiumi di Selinunte (444 a.C.), evento secondo alcuni commemorato da emissioni monetali successive alla caduta di Ierone di Siracusa (467 a.C.), costituite da tetradrammi (in luogo dei tradizionali didrammi) recanti al dritto Apollo e Artemide su quadriga e al rovescio il sacrificio ad un altare d'Asclepio delle due divinità fluviali, simbolo del risanamento operato sui corsi d'acqua.

La grande popolosità della città, sin dall'inizio, è assicurata oltre che dall'estensione dell'abitato, anche da iscrizioni, che ricordano tra gli altri un arcade (SEG XIV 594), o l'accoglimento di esuli megaresi (SEG XI 1179), e persino una Tyrranà, un'etrusca, e soprattutto dell'enorme estensione delle necropoli, in particolare di quella di Manicalunga, vissuta principalmente nel V secolo a.C. Un calcolo delle tombe - saccheggiate soprattutto dai clandestini negli anni '50 del Novecento - fa ascendere ad oltre centomila il numero delle sepolture, accordandosi statisticamente col dato riferitoci da Diodoro Siculo (XIII 57-8), secondo il quale nella città, al momento della sua caduta nel 409 a.C., sarebbero stati presenti (senza contare i numerosissimi schiavi e soprattutto i meticci) 23.600 cittadini maschi, di cui 16.000 furono uccisi, 5.000 furono fatti schiavi e 2.600 riuscirono a fuggire ad Agrigento. In ogni caso, se nel V secolo a.C., per ammissione delle fonti, Selinunte era tra le città più prospere e popolate della Sicilia (Diodoro XIII 44), la grande edilizia pubblica testimonia che tale prosperità era già enorme nel cuore del VI secolo a.C., quando appunto si pose mano all'organizzazione razionale degli spazi urbani.

[modifica] L'espansione del VI secolo

I primi anni di vita della colonia la vedono impegnata in guerra contro i vicini Elimi. La sfortunata impresa di Pentatlo, che non influì in maniera diretta sui destini della città, accolse nella compagine urbana qualche superstite, ma questo non turbò apparentemente i buoni rapporti con Cartagine, benché quell'impresa fosse diretta specificamente contro il prezioso emporio fenicio di Lilibeo. Lo sviluppo economico-sociale della città non procede nel corso del VI secolo a.C., quando (570 a.C. circa) Selinunte fonda come sottocolonia Eraclea Minoa (Erodoto, V 46): l'episodio s'inquadra nella tendenza della città ad impadronirsi delle terre pianeggianti migliori, al di là delle linee naturali di risalita dei fiumi, e cioè lungo il tratto di costa ancora libero dalla nascente grandezza d'Agrigento, neo-fondata sottocolonia di Gela; si venne così a fissare alle foci del Platani (antico "Halykos") un confine storico con la grande vicina. È probabile che già uno stanziamento fosse presso la moderna Sciacca, sempre sulla costa: in tal modo l'estensione costiera dei possessi selinuntini diveniva veramente notevole, e le sue zone pianeggianti, atte alle culture granarie, erano quasi senza pari nella Sicilia greca. Tale vistosa espansione (non è affatto certa, però, la presenza di uno stanziamento selinuntino a carattere emporico a Marsala, nel cuore della Sicilia punica, notizia più volte ripetuta, ma mai veramente dimostrata) fu causa ed effetto di due importanti fatti politici che caratterizzano la vita della città: l'emergere della tirannide, verosimilmente negli anni centrali del secolo, e la quasi costante amicizia con Cartagine.

Le fonti parlano per il VI secolo a.C. d'almeno due tiranni, Pitagora e il suo successore Eurileonte, un superstite della sfortunata apolkia (colonizzazione) d'Eraclea nel territorio di Erice guidata dal principe spartano Doriso (511-510 a.C.): anteriormente a questi due tyrannoi, non si sa quale tipo di governo, aristocratico o tirannico, reggesse Selinunte. Tuttavia, la grande ristrutturazione urbanistica della città e il già riscontrato atteggiamento di benevola neutralità verso la fondazione d'Agrigento (582 a.C.), uniti al vistoso sviluppo economico e demografico della città nei primi anni del VI secolo, c'inducono a ritenere probabile, malgrado il silenzio delle fonti, se non un precoce emergere della tirannide a Selinunte, certo almeno l'affacciarsi di quei conflitti sociali che nelle colonie, più ancora che nella madrepatria, hanno costantemente condotto all'affermarsi di reggimenti autoritari. Non è un caso che nella vicina Agrigento la tirannide di Falàride s'instauri quasi al momento della fondazione (582 a.C.), e sia subito seguita dalle più scolorite di tiranni-esimneti Alcandro e Alcàmene; riacquista così una più precisa collocazione cronologica ed una più piena attendibilità l'incerta figura del tiranno di Selinunte Terone figlio di Milziade (Polieno I 28), giustamente collegata da G. Maddoli al fallimento dell'impresa di Pentatlo e alle imprese vittoriose del cartaginese Malco (570 a.C.).

La grandiosa sistemazione urbana di Selinunte si comprende meglio perciò se inquadrata nella prospettiva di governi tirannici, fautori di un assetto della città e della campagna, capace d'assicurare sempre più abbondanti rifornimenti granari e maggior prestigio per l'autore delle realizzazioni monumentali. Sempre in quest'ottica si comprende meglio la pressoché costante politica filo-cartaginese della città. Non si tratta soltanto di un effetto collaterale di presenze tiranniche al vertice del governo di Selinunte (la cui politica prosegue anche dopo la cacciata dell'ultimo dei tiranni), ma piuttosto dalla necessaria conseguenza di una realtà economica di fondo, costituita dal naturale incontro tra presenza e connotazione mercantile dell'elemento fenicio e poi punico nella Sicilia occidentale da una parte e capacità produttiva agricola dispiegata dalla più occidentale delle colonie greche dell'isola dall'altra. Non fa dunque meraviglia che, quando alla fine del V secolo a.C. Cartagine muterà i propri indirizzi economici di fondo, orientandosi verso le conquiste territoriali in Africa e altrove, e dunque verso una crescente produzione diretta di derrate alimentari, cessando di dipendere in larga misura dalle importazioni, la metropoli punica non esiterà a distruggere senza pietà l'antica città partner d'antichi scambi. Non è perciò difficile immagine l'origine selinuntina di capolavori di scultura greca come l'auriga di marmo scoperto a Mozia, parallelo perfetto della dedica deifica ("FD" III 1, n. 506), databile al 450 a.C. circa, di un "Phi[---]os", Asklapiadas di Selinunte, opera dello scultore selinuntino Akron figlio di Praton, e dell'iscrizione metrica selinuntina trovata nella stessa isola di Mozia, caposaldo della presenza fenicio-punica nelle acque di Sicilia ("SEG" IV 44). Selinunte e l'area fenicia della Sicilia occidentale (e via via a partire dal pieno VI secolo a.C. anche il territorio elimo) costituiscono un'area economica fortemente omogenea, con precise connotazioni economiche ripartite fra i differenti gruppi.

In quest'ottica acquistano un particolare significato anche le maggiori realizzazioni architettoniche della metropoli selinuntina. Al 560 a.C., risale la nascita dei due colossali templi dell'acropoli, quelli denominati C e D, mentre quasi contemporaneamente sulla collina orientale viene eretto il tempio F, senza contare le numerose terrecotte architettoniche adeposte databili sempre nello stesso torno di tempo. La seconda fase, quella delle tirannidi storicamente note di Pitagora ed Eurileonte, è invece da ritenere responsabile del colossale terrazzamento del lato orientale dell'acropoli, dell'inizio dell' opus infinitum del tempio G e della ricostruzione, rimasta poi interrotta, della seconda fase del tempio E, nonché dell'erezione del thesaurus dei Selinuntini ad Olimpia e, sempre nella medesima Selinunte, della colossale fontana extraurbana (il cosiddetto tempio M), tipica realizzazione delle tirannie arcaiche, dall' enneakrounos (fontana a nove getti) di Pisistrato ad Atene alla fontana di Teagene a Megara e all'acquedotto della Samo policratea.

[modifica] Caduta delle tirannidi nel V secolo

La serie delle tirannidi viene bruscamente interrotta con l'eliminazione violenta di Eurileonte grazie all'aiuto cartaginese (altra prova, se si vuole, della non meccanicità del collegamento, voluto dall'inconscio razzismo di certa storiografia moderna, fra tirannidi e "barbarie semitica"): la natura del nuovo governo della città resta per noi sconosciuta, ma è probabile che si sia trattato di forme aristocratiche, legate allo sfruttamento della terra e ai rapporti privilegiati con Cartagine. L'atteggiamento filo-cartaginese della nuova classe dirigente si riconferma a più riprese nel corso del V secolo a.C.: neutrale nel gigantesco scontro greco-punico d'Himera (480 a.C.), malgrado formali atteggiamenti di solidarietà ellenica (Diodoro, XI 68, 1). Selinunte giunse a dar ospitalità a Giscone, figlio del generale cartaginese Amilcare, caduto appunto nella battaglia d'Himera (Diodoro, XIII 43, 5). È tuttavia in questo contesto che Diodoro c'informa dell'esistenza di un portico aristocratico filo-cartaginese e di uno democratico fautore di una più stretta alleanza con le altre città siceliote.

Il V secolo a.C. è per noi un periodo di relativa oscurità nella vita socio-politica della città. La Grande Tavola Selinuntina, iscrizione monumentale posta nel tempio G, allude ad una vittoria ottenuta dalla città grazie all'appoggio delle principali divinità selinuntine, ma non siamo in grado di stabilire contro quali nemici tale vittoria sia stata conseguita. Non è impossibile che in questa stessa circostanza sia stato ricostruito, nella forma definitiva, il tempio E (460 a.C.), mentre al periodo delle restaurate libertà repubblicane, e comunque prima della battaglia d'Himera, risale la costruzione di due templi sull'acropoli, quasi a riscontro dei santuari realizzati dalle tirannidi (templi C e D). Si tratta dei templi A e O, databili al decennio 490-80 a.C., quando venne creato anche il propileo a T d'accesso ad essi. Sempre al V secolo a.C., ma precedentemente ai templi A e O, sembra risalire il grande portico ad L che delimita la prospettiva dei templi C e D, se pure esso (mancano elementi certi per una sua precisa cronologia) non è d riferirsi all'estrema fase delle tirannidi, periodo in cui possiamo datare invece con certezza una seconda sistemazione dell'acropoli, con muri perimetrali a grandi strutture isodome (cioè a grandi blocchi regolari disposti in filari con sfalsature di mezzo blocco) in luogo della tecnica a piccoli blocchi che caratterizza il resto dell'abitato - ossia la collina di Manuzza - dalla fondazione della città alla distruzione del 409 a.C. Il significato di quest'intervento è tutt'altro che chiaro: può trattarsi di un progetto mirante ad una monumentalizzazione totale dell'acropoli, ma il permanere, secondo l'originario impianto urbanistico degl'isolati nella parte settentrionale (quella meridionale conservava il suo carattere di settore sacro dell'impianto, enfatizzato subito dopo con l'edificazione dei templi A ed O) dimostra che la destinazione ad abitato del settore non veniva messa in questione. Potrebbe trattarsi anche di un segnale del concentrarsi nella parte della città più eminente e difesa, nonché prestigiosamente adorna d'augusti santuari, di gruppi aristocratici che andavano minando il potere tirannico o lo avevano appena eliminato: la data di questo significativo intervento urbanistico è fissata, infatti, attorno al 500 a.C.

A metà del V secolo a.C., quando ormai Eraclea Minoa è entrata (480 a.C. circa) nella sfera d'influenza agrigentina, il fervore edilizio della città sembra cessare, tranne qualche intervento marginale nel santuario della Malophòros (propileo d'accesso). E sembra tacere anche la grande scuola di scultura selinuntina, attiva sin dalla prima metà del VI secolo a.C.: dalle metope Salinas a quelle dei templi C, F ed E, e fino all'auriga di Mozia e al celebre efebo bronzeo. Solo la pietà nel popolare santuario di Demetra Malophòros non appare in declino, e il dato è di grande interesse, perché può costituire un indizio di un progressivo emergere di strati popolari nell'oscuro quadro sociale della città. Non va dimenticata, in questo contesto, l'alleanza tra Atene e gli Elimi ("IG" I2 19), databile con tutta probabilità al 458/7, cui fa da contrappunto la guerra (454 a.C.), che vede Segesta schierata contro l'alleanza fra Selinunte e Lilibeo. È questo il preannunzio del grande conflitto siracusano-ateniese, poiché l'antefatto di tale conflitto è proprio (416 a.C.) la richiesta d'aiuto ad Atene di Segesta in occasione di un'ennesima controversia di natura territoriale e giuridica (la già ricordata epigamia) con Selinunte (Diodoro Siculo, XII 82; Tucidide, VI 6, 2 sgg.).

[modifica] La perdita dell'indipendenza

Uno dei generali della sfortunata spedizione ateniese del 415-3 a.C., Nicia, aveva pensato di far rotta su Selinunte, per accontentare gli alleati Segestani ed evitare l'impatto iniziale con la metropoli siracusana, ma aveva alfine prevalso la linea dello scontro diretto con Siracusa, propugnata da Lamaco e, con sfumature politiche diverse, da Alcibiade (Tucidide, VI 25 ss.). Causa prima del gigantesco conflitto, che rapidamente finì per opporre agl'invasori Ateniesi l'intera Sicilia tranne Agrigento, Selinunte non riuscì a portare il proprio aiuto all'assediata Siracusa, sia per la guerriglia opposta dagl'indigeni della città di Halykiai, legata da alleanza con Atene ("SEG" X 68), sia soprattutto per l'opposizione d'Agrigento e di Centuripe al passaggio delle truppe selinuntine dirette ad oriente.

La tragica sconfitta del corpo di spedizione ateniese del 413 a.C. spinge Segesta, ormai lasciata alla mercé di Selinunte, a richiedere l'intervento di Cartagine (410 a.C.), anche in considerazione del probabile mutamento di governo di Selinunte in senso democratico e filo-siracusano: nel 409 a.C. un piccolo esercito di 5.000 mercenari libici e 800 campani, guidati da Annibale (figlio di quel Giscone che era stato ospitato a Selinunte dopo la battaglia d'Himera) ha ragione della disperata resistenza dei Selinuntini, durata nove giorni e conclusasi con un bagno di sangue degli assediati e con la distruzione della città e delle mura di cinta (Diodoro Siculo, XIII 43 ss.). L'eroe della resistenza siracusana Ermocrate, ritornato dall'esilio, chiamò allora all'appello le popolazioni siceliote contro la minaccia cartaginese che, dopo Selinunte, aveva avuto ragione anche d'Himera (408 a.C.), stabilì proprio nelle rovine della città selinuntina il proprio quartier generale e, con audaci colpi di mano, minacciò i territori cartaginesi e le medesime città puniche di Mozia e Panormo (Palermo). Il tentativo d'Ermocrate, ucciso nel tentativo di riconquistare Siracusa, fu purtroppo effimero, e nella feroce lotta fra Cartaginesi e Siracusani, donde emergerà il potere del nuovo tiranno di Siracusa, Dionigi, Selinunte resterà definitivamente in mani puniche. Il possesso di Selinunte da parte di Cartagine sarà confermato nei trattati greco-cartaginesi del 405, del 383 e del 306 a.C.

[modifica] Selinunte punica

L'abitato si restringe alla sola area dell'acropoli, lasciando deserte la collina di Manuzza e la collina orientale, mentre sembra continuare la frequentazione del popolare santuario della Malophòros, peraltro in pieno accordo con l'ampio favore accordato a Cartagine e nelle zone di dominio pubblico, sin dal 396 a.C., al grande culto agrario di Demetra e Kore. La vita dell'abitato punico è documentata archeologicamente da case di media grandezza, nei cui pavimenti di cocciopesto è inserito a mosaico il segno di Tanit, e da un piccolo luogo di culto nell'area dell'antico témenos dell'acropoli, con tipico apprestamento sacro di tipo punico. Enigmatica resta la destinazione del tempio B, un piccolo edificio d'impianto ellenico, ma la cui cronologia ricade ampiamente nell'ambito della dominazione punica (IV secolo a.C.). L'ipotesi che si tratti dell'heroon (tempio sede di un culto eroico) di Empedocle, bonificatore delle paludi selinuntine, non può quindi essere sostenuta, e occorre pensare piuttosto a un culto punico fortemente ellenizzato, come quelli di Demetra o d'Asclepio-Eshmun.

L'abitato ebbe per l'eparchia cartaginese di Sicilia notevole importanza, come dimostra il sistema di fortificazioni dell'acropoli, tradizionalmente attribuito ad Ermocrate (cfr. Diodoro, XIII 63, 3), ma che s'inquadra bene nell'esperienza della poliorcetica (la tecnica delle fortificazioni urbane) della prima metà del IV secolo a.C. Dopo una breve parentesi (276 a.C.) d'occupazione da parte di Pirro, durante la prima guerra punica (250 a.C.) la popolazione venne evacuata a Lilibeo e la città rimase definitivamente in abbandono, con rare e modeste occupazioni antiche (Strabone, VI 2, 6; Plinio il Vecchio, "Nat. Hist." III 90), medievali e moderne, annidate perlopiù tra le rovine dei grandi templi, costituendo - malgrado discutibili operazioni d'anastilosi (cioè di reinnalzamento di templi) del nostro secolo - uno dei paesaggi di rovine più suggestivi del mondo.

Vista di Selinunte
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Vista di Selinunte
Templi F e E di Selinunte
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Templi F e E di Selinunte

[modifica] Il parco archeologico di Selinunte

I ruderi della città si trovano sul territorio del comune di Castelvetrano, nella parte meridionale della provincia di Trapani. Tutto il terreno interessato forma oggi un parco archeologico della dimensione di ca. 40 ettari.
Le sculture trovate neglii scavi di Selinunte si trovano soprattutto nel Museo Nazionale Archeologico di Palermo. Fa eccezione l'opera più famosa, l'Efebo di Selinunte, che è oggi esposto al Museo Comunale di Castelvetrano.

I resti di Selinunte sono divisibili in tre aree principali, l'Acropoli, la collina orientale, e il santuario della Malophoros.

[modifica] La collina orientale

Ad onta della volgare aggressione della speculazione urbanistica, che ha trasformato l'antico villaggio di pescatori di Marinella in un agglomerato d'offensive case per le vacanze a ridosso delle zone archeologiche, la piatta sommità della collina orientale di Selinunte, con le colossali rovine dei suoi tre templi, offre al visitatore una delle immagini più belle e celebrate della grecità coloniale. L'altura, digradante abbastanza rapidamente ad ovest, verso la valle del Cottone - antica insenatura portuale orientale della città - rappresenta un quartiere extra moenia in rapporto con la funzione emporica (cioè commerciale), e i suoi santuari vanno interpretati in stretto collegamento con il carattere e la destinazione della zona. I tre templi che vi sorgono, tradizionalmente designati con le lettere dell'alfabeto E, F e G, si allineano a poca distanza l'uno dall'altro, e l'identificazione di culti in essi praticati costituisce uno degli argomenti più discussi della topografia sacra della città, di cui la Grande Tavola Selinuntina, trovata nel tempio G e contenente un vero e proprio catalogo dei culti cittadini, è il documento principe.

In questa zona sono presenti i templi E, F e G. Il tempio E è il più meridionale con dimensioni di 67,82m x 25,33m, ed è databile alla metà del V secolo a.C. Il tempio F è il più antico, risale al 530 a.C. Il tempio G, con le sue dimensioni pari a 50,07 m x 100,12 m uno dei più grandi fra tutti i templi greci, non è mai stato ultimato.

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Il tempio E , quello più meridionale, appare oggi nella forma che assunse negli 460-50 a. C., in seguito ad una criticata anastilosi (reinnalzamento delle parti cadute): le critiche si appuntarono giustamente sia sui criteri del ripristino (rocchi di colonna ed architravi, neppure tutti recuperati con uno scavo accurato, sono stati irreversibilmente legati fra loro con cemento armato), sia sull'opportunità dell'operazione, che ha per sempre mutato il suggestivo ambiente archeologico. Il tempio, che, a differenza dei due vicini, aveva un proprio recinto di témenos accessibile da un piccolo propileo ad ovest, era un edificio dorico periptero con sei colonne sulla fronte e quindici sul lato; il pronao era decorato con metope (il fregio dorico girava lungo tutte le pareti della cella), erano scolpite sì nel tenero calcare di consistenza quasi tufacea, ma con tecnica acrolitica: in altre parole, le parti nude delle figure a bassorilievo erano eseguite a parte in marmo, in un raffinato stile severo quasi alle soglie dello stile classico. Solo quattro di queste metope sono state recuperate quasi integralmente (con i resti di una quinta) e restituiscono soggetti mitici: Atena ed Encelado, Artemide e Atteone, Apollo e Dafne (?), Eracle e l'amazzone e la ierogamia di Zeus. Quest'ultimo soggetto, insieme con una dedica a Hera e con la grande antichità della fondazione sacra ha fatto identificare il tempio con un Heraion: la collocazione extraurbana del santuario, in relazione col sottostante porto, potrebbe favorire l'identificazione, dal momento che molti altri esempi, da Poseidonia a Crotone, mettono in risalto il rapporto privilegiato tra il culto di Hera e le funzioni emporiche o più genericamente di scambio. Tuttavia riguardo all'identificazione si potrebbero formulare altre ipotesi. Il tempio, malgrado il non felice restauro, resta comunque un esempio fra i più significativi dell'apogeo dello stile dorico nella grecità occidentale: le proporzioni leggermente allungate (m 67,82 x 25,33) e il dettaglio dell' àdyton, qui soprelevato rispetto al già rialzato piano della cella, lo apparentano alla tradizione architettonica selinuntina, saldamente stabilita sin dal tardo VII secolo a. C. con il cosiddetto mégaron dell'acropoli e il primo tempio della Malophòros, recependo però anche tutte le principali conquiste degli accorgimenti di pianta e d'alzato dell'ordine dorico più evoluto. Sono qui infatti in opera le correzioni e le curvature di tutti gli elementi destinate a risolvere il noto problema del triglifo angolare e ad equilibrare le diverse membrature architettoniche, colonne e trabeazione. Il tempio del 460-50 a. C. è stato preceduto da due altri edifici sacri, rivelatici in parte da recenti sondaggi attorno e al di sotto della struttura del V secolo a. C. attualmente visibile. L'immediato predecessore di quest'ultimo, costruito sempre in calcare stuccato, sembra aver avuto, se non pianta uguale al successivo, almeno uguale perimetro, dal momento che ne sono state viste più parti dello stereobate, appena sporgente rispetto a quello del tempio del 460-50 a. C., mentre la fondazione del muro E si allinea con quella del successivo tempio. Quest'edificio sorse anch'esso sui resti di un precedente e primitivo edificio sacro, distrutto da un incendio intorno al 510 a. C., ma sembra che non sia mai stato completato (forse un'opera iniziata nel breve periodo della tirannide di Eurileonte e lasciata interrotta a seguito della presa del potere da parte di gruppi aristocratici). Il terzo e primitivo edificio, sorto secondo gli scavatori pochi anni dopo la fondazione della città e distrutto verso il 510 a. C., è imperfettamente noto nella pianta, poiché i materiali che lo componevano vennero reimpiegati largamente nelle fondazioni dell'edificio tardo-antico successivo. Ne è stata proposta una ricostruzione come semplice edificio distilo in antis, composto in altre parole da una lunga cella con colonnati laterali di quattro colonne per parte, allineate col filo della porta della cella, e àdyton: le colonne, di due misure diverse (più grandi all'esterno, più piccole all'interno), presentano un echino molto espanso e collarino poligonale. Più cospicui i resti della copertura, con belle tegole dipinte a scacchiera, tegole terminali decorate con palmette e fiori di loto ed antemio di cresta sovrapposto alla tegola di colmo. È notevole il rapporto, nella tipologia di copertura, con i tetti arcaici dei grandi santuari dell'Etolia, ma il tipo di tegola è quello corinzio arcaico.

Allineato al tempio E, ma separato da questo mediante il muro di témenos cingendolo sin dalla prima fase, è il tempio F, il cui allineamento tradisce la volontà di collocare i due edifici sacri e l'adiacente tempio G lungo uno stesso asse nord-sud che attraversa la collina orientale, forse secondo il tracciato di una strada processionale. Il tempio F, il più piccolo dei tre della collina orientale (m 61,83 x 24,43), ma pur sempre di proporzioni ragguardevoli, sorse accanto al primitivo tempio E intorno al 550-40 a. C., con pianta di 6 x 14 colonne, lunga cella con pronao e àdyton, ma senza opisthòdomos (vano posteriore corrispondente al pronao). Una particolarità planimetrica lo collega al poco più antico tempio C, dall'architettura assai simile: la presenza di una doppia fila di colonne sulla facciata, separate fra loro da due intercolunni (dalla fronte della cella alla fila più arretrata nel caso del tempio F c'è però un solo intercolunnio, a differenza dei due del tempio C). del tutto eccezionale è invece la presenza, fra le colonne della peristasi, di un muro alto m 4,70 marcato da una sorta di triplice lesena che chiude l'accesso al peribolo del tempio sul retro e sui lati, lasciando solo stretti passaggi sulla facciata. Il motivo di quest'apprestamento, veramente insolito nell'architettura templare greca, resta per noi sconosciuto: anche se non è impossibile che questa sorta di schermo protettivo fosse semplicemente destinato alla conservazione di doni votivi, l'opinione corrente vuole che la chiusura della peristasi sia dovuta alla necessità di provvedere all'occultamento di particolari rituali, di cui tuttavia non è possibile rintracciare dati nelle fonti. Le ipotesi circa la divinità ivi venerata sono molte (per la Grande Tavola Selinuntina: Atena, Demetra, Zeus, Eracle, ecc.), ma quella più accreditata è Dioniso, malgrado l'assenza del nome dalla Tavola Selinuntina, probabilmente in considerazione del fatto che nella madrepatria Megara Nisea il culto di Dioniso era associato a quello di Afrodite Praxis(sull'acropoli Caria). L'associazione di questi due culti, inoltre, potrebbe esser un buon argomento per attribuire non solo il tempio F a Dioniso, ma anche per proporre del vicino tempio E non già a Hera, ma ad Afrodite. In tal modo la collina orientale di Selinunte sarebbe una riproposizione dell'acropoli Caria di Megara Nisea, con un primato d'Afrodite in termini cronologici e funzionali, in relazione con la destinazione principale della collina a luogo arcaico dello scambio. Il tempio F ebbe una ricca decorazione fittile al momento della sua costruzione. Forse in seguito all'incendio che intorno al 510 a. C. distrusse il vicino tempio E, tale decorazione fittile venne sostituita, e furono aggiunte delle metope scolpite sulle fronti, con raffigurazioni di una gigantomachia, dove nelle due metope conservate significativamente compaiono nell'una lo scontro tra un gigante e Dioniso e tra un gigante ed Atena nell'altra. La datazione di queste metope, capolavoro del tardo arcaismo selinuntino, è normalmente fissata troppo in basso, già nel V secolo a. C. iniziale, sul solo pregiudizio d'attardamenti provinciali, ma una cronologia intorno al 500 a. C. si attaglia assai bene allo stile potente, ma al tempo stessi raffinato dello scultore.

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Il tempio G , quello più settentrionale della collina orientale, è uno dei più maestosi e grandiosi di tutta la grecità, con le sue misure allo stilobate di m 113, 34 x 54,05, e con le sue colonne alte m 16,20, che sviluppavano una superficie dell'abaco di oltre 16 m2. La costruzione del gigantesco edificio, alto circa 30 m, iniziò intorno al 530 a. C. E la distruzione della città nel 409 a. C. lo trovò ancora incompiuto. Ciò è ben mostrato dalle colonne, solo in parte scanalate (il lavoro della scanalatura dei fusti veniva infatti eseguito dopo la messa in opera dei rocchi fino al capitello), e dallo stile diverso dei capitelli, tra i quali si possono riconoscere esemplari più arcaici (con l'echino basso e rigonfio) e, sul lato occidentale, esemplari più recenti ed evoluti verso forme del dorico dell'età severa. L'incompiutezza dell'edificio sacro sembra però in gran parte limitata alle rifiniture (anche se è visibile la stuccatura di molti elementi), dal momento che la pianta appare completa in ogni sua parte: poco sappiamo tuttavia della copertura e della decorazione. Il tempio, malgrado l'immane congerie delle sue rovine, ha una pianta sufficientemente conosciuta. Si tratta di un edificio pseudoperiptero, ossia un tempio la cui peristasi è separata dalla cella per una larghezza non di un solo intercolunnio, com'è nella norma dei templi peripteri, ma di due, sì da simulare la presenza di una doppia peristasi, come negli edifici dipteri, molto in voga nei colossali templi dorici della Grecia orientale, ad Efeso, a Mileto e a Samo a partire dalla metà circa del VI secolo a. C. All'interno della peristasi, con otto colonne sulla fronte e diciassette sui lati, era la cella, munita di pronao tetrastilo profondo due intercolunni, evidente sostituzione della doppia fila di colonne posta in genere due intercolunni dietro la fronte orientale della peristasi, come negli altri edifici templari arcaici di Selinunte (così il vicino tempio F e il tempio C dell'acropoli) e di Siracusa (l' Apollonion). Tale colonnato fa assumere al pronao e alla cella l'aspetto virtuale di un edificio quasi a sé stante, di cui si è anche congetturata la natura ipetrale, ossia la mancanza di copertura della nave centrale. Il pronao fronteggiava due profonde ante terminate da pilastri, fra i quali - secondo alcuni - erano due altre colonne; indi, un triplice portale (in luogo della consueta porta unica) dava accesso all'amplissimo vano della cella. Questa presentava al suo interno un duplice colonnato dorico di dieci colonne su due ordini, così che il triplice portale dava accesso, con le aperture laterali, alle navate alle spalle del duplice colonnato, e, con l'apertura mediana, alla navata centrale. Al termine della navata centrale, separata dalle pareti della cella, sorgeva una vera e propria cappella destinata ad ospitare la statua di culto (di qui proviene il vigoroso dorso tardo-antico di un gigante): quest'apprestamento, sentore di modelli dell'architettura ionica greco-orientale (e in particolare al Didymaion di Mileto), sembra qui prendere il posto di un altro elemento tipico dell'architettura sacra siceliota arcaica, e di Selinunte in particolare, l' àdyton. Si ritiene in genere che nel progetto originario l' àdyton fosse, se non già in parte realizzato, almeno previsto, e che, procedendo la costruzione da oriente verso occidente, in corso d'opera questa tipica struttura fosse stata sostituita, seguendo i modelli ormai canonici dell'ordine dorico d'epoca severa, dall'attuale opistodomo distilo con ante sensibilmente più piccole di quelle del pronao. Tuttavia, poiché la cappella interna sembra far parte del piano originario, l'esistenza di un àdyton risulta, come s'è detto poc'anzi, quanto meno superflua. Completano infine gli apprestamenti interni della cella due scale laterali appoggiate alle pareti così da raggiungere tetto e sottotetto per le ispezioni alle colossali capriate lignee, e per l'ordinaria manutenzione della copertura. Come s'è accennato, la lunghissima durata della realizzazione del tempio consente d'apprezzare i mutamenti di gusto intervenuti col tempo nel disegno e nella concezione dell'ordine dorico: la fronte orientale è infatti la più antica ed arcaica, con colonne fortemente rastremate dall'echino espanso, mentre la fronte occidentale, realizzata in pieno V secolo a. C., esibisce colonne più robuste dall'echino più contenuto e privo della cavità fra questo e il fusto. Sempre sul lato occidentale, si possono osservare le applicazioni delle norme della contrazione angolare, elaborate in epoca successiva all'inizio dei lavori. L'identificazione del culto praticato nel tempio G presenta i consueti problemi di tutti i templi della collina orientale. La Grande Tavola Selinuntina sembra però far restringere la scelta tra un Apollonion e un Olympieion, mettendo l'accento su quest'ultimo. È verosimile, inoltre, che il tempio G fungesse come ordinario luogo di deposito di valori della città, ossia come "tesoro pubblico", una funzione che ad esempio emerge chiarissima nelle tavolette bronzee dell'archivio del tempio di Zeus di Locri Epizefiri all'indomani dell'instaurazione della democrazia moderata alla metà del IV secolo a. C. L'esempio di Siracusa, dove il grandioso Olympieion, anch'esso extraurbano, fingeva da archivio cittadino, con le liste dei membri della comunità suddivisi per censo (e dunque per capacità contributiva e in funzione del reclutamento militare), rappresenta un ulteriore dato di confronto non meno importante con la situazione di Selinunte. La colossità della realizzazione, da confrontare con quella degli Olympieia di Siracusa ed Agrigento (ma non va dimenticato l'esempio proveniente dalla medesima Atene psisistratea), e il particolare legame tra Selinunte e Olimpia, dove nella stessa epoca la città erige il proprio thesauròs con il sontuoso dono di un sélinos aureo (il prezzemolo selvatico o apio, simbolo della città), sono ulteriori e non trascurabili argomenti per l'identificazione del gigantesco edificio.

Se gli argomenti finora addotti sono dunque validi, il complesso degli edifici sacri della collina orientale verrebbe effettivamente a riproporsi come duplicato virtuale delle pendici occidentali dell'acropoli Caria di Megara Nisea, madrepatria di Selinunte, dove si collocano in stretta successione l' Olympieion, il tempio di Dioniso Nyktelios e il tempio d'Afrodite Epistrophia, parallelo perfetto della collina orientale di Selinuntem, con l' Olympieion (tempio G), il tempio di Dioniso (tempio F) e il tempio d'Afrodite (tempio E). Particolare importanza, ai fini di una possibile e voluta reduplicazione della madrepatria, riveste il consevativismo culturale e linguistico di Selinunte, ben spiegabile con la collocazione isolata della colonia all'estremo occidente della Sicilia e con la forte pressione economico-sociale derivante dall'elemento elimo e fenicio sul nucleo originario dei coloni megaresi.

[modifica] L'Acropoli

L'area dell'acropoli era destinata alle divinità. Una parte, durante il periodo greco-punico, era adibita a zona abitata.

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Dalla collina orientale si può passare, direttamente o attraverso il moderno villaggio di Marinella, alla visita dell'acropoli, attraversando il fondovalle ormai secco del Cottone. Agli occhi del visitatore, che sale le rapidi pendici della collina, si presentano subito verso settentrione le parti più antiche delle fortificazioni della città, una gigantesca costruzione a gradoni che guarnisce la sporgenza orientale della collina dell'acropoli, destinata a sostenere la terrazza dei templi, entro il vasto témenos nella metà meridionale della collina. È questo il tratto più imponente dell'arcaico sistema difensivo della città, che era probabilmente coronato dalle mura urbiche vere e proprie, distrutte nel 409 a. C. In effetti, delle mura più antiche assai poco si conosce e ancor meno è oggi visibile: le suggestive fortificazioni a blocchi con torri, porte coperte da archi a sesto acuto e struttura a casematte, che attualmente circondano buona parte dell'acropoli, sono un rifacimento con materiale di reimpiego (di qui provengono anche metope scolpite pertinenti a templi dell'acropoli) delle mura più antiche e di edifici vari, rifacimento da datare all'epoca in cui Selinunte era diventata piazzaforte cartaginese, forse nella prima metà del IV secolo a. C. Quanto alle difese della parte vera e propria dell'abitato, la collina di Manuzza, non abbiamo dati a disposizione, ma è verosimile che anche questa zona fosse guarnita di mura, tanto più che recenti ricerche topografiche ed urbanistiche hanno messi in rilievo che i complessi monumentali extraurbani - santuario della Malophòros e cosiddetto tempio M ad ovest, ad est santuari della colina orientale - sembrano disporsi sul prolungamento ideale di grandi assi viari urbani di Manuzza e dunque, presumibilmente, in corrispondenza di porte urbiche. Sempre salendo sull'acropoli, si trovano i resti di una torre ai piedi della collina, posta a difesa del porto orientale, donde si dipartiva una strada di collegamento tra porto ed acropoli che penetrava nell'abitato attraversando una porta oggi murata. Altre torri della fase punica sono visibili oltre il terrazzamento arcaico a gradoni.

Si giunge così sull'estremità meridionale dell'acropoli, un tempo ampio spazio sacro per i principali templi cittadini ed oggi occupato in buona parte - come la porzione settentrionale - da modestissime costruzioni d'epoca punica, con una bella veduta a picco sul canale di Sicilia. In quest'area si conserva, ben visibile (verso ovest), una delle tre aree sacre puniche di Selinunte, costituita da uno spazio a cielo aperto. Le case puniche, di modesto apparecchio e costruito con la tecnica edilizia dei muri a telaio (grandi blocchi conficcati nel terreno per testa ad una certa distanza l'uno dall'altro e riempiture con pietrame a secco), diffusissima - ma non esclusivamente - in ambito fenicio-punico, presentano in due casi pavimenti in cocciopesto col segno di Tanit (un triangolo sul cui vertice insistono una linea orizzontale ed un cerchio) e il caduceo.

Immediatamente a nord di quest'area si entra nella parte superstite dell'originario témenos dei templi dell'acropoli, diviso in epoca punica a metà da una grande strada est-ovest incrociante ortogonalmente l'antica platéia nord-sud d'epoca greca, un tempo terminante al limite settentrionale del grande témenos. S'incontrano subito i poverissimi resti del tempio O , un periptero dorico con sei colonne sulla fronte e quattordici sui lati, pronao ed opistodomo distili in antis e probabile àdyton; immediatamente a nord sono i resti, appena più conservati, del tempio A , virtualmente gemello del precedente, del quale è appena più piccolo. Né è stato recentemente rinvenuto, a poca distanza dalla fronte orientale, l'altare; altra particolarità è la presenza, immediatamente alle spalle dell'ingresso, di due casse di scala per l'accesso al tetto. La cronologia dei due edifici è molto incerta, per l'assenza di dati moderni di scavo e per la relativa scarsezza d'elementi stilistici a nostra disposizione: la tipologia relativamente canonica delle piante consente tuttavia una datazione fra il 490 e il 460 a. C. Le date, comunque, iscrivono i due templi nell'ambito della fase di probabile governo aristocratico della città e la loro costruzione (o ricostruzione, in assenza di dati di scavo) può essere spiegata come celebrazione di divinità care all'aristocrazia greca e coloniale: fra i candidati più favoriti si possono citare, nella serie di divinità attestate a Selinunte (in particolare dalla più volte citata Grande Tavole Selinuntina), Poseidone e i Dioscuri. A favore del primo militano alcune importanti circostanze: da un lato la genealogia alternativa di Megareo come figlio di Poseidone invece che d'Apollo (Pausania, I 39, 5-6) e il culto del dio a Nisea, porto di Megara (Tucidide, I 44, 3; Plutarco, Questioni conviviali, VIII 8, 4), dall'altro l'insinuarsi del dio nella genealogia di Erice attraverso Butes-Byto, figlio di Poseidone, dimostrano che la figura della grande divinità marina ha giocato certamente un ruolo nell'intrecciarsi di relazioni politiche e familiari dei Greci con l'ambito elimo. Da tale atteggiamento è difficile veder estranea la classe dominante selinuntina, anche alla luce dell'epigamia (cioè del diritto a matrimoni misti) esistente, almeno prima del IV secolo a. C., tra Elimi e Selinuntini. Quanto alla candidatura dei Dioscuri, essa non richiede particolari commenti, se non il ricordo di una dedica a questi Dei provenienti da Megara Iblea: gli aristocratici simboli della cavalleria sembrano essere pervenuti a Selinunte piuttosto per tramite siceliota che per eredità da Megara Nisea. La presenza, all'interno del pronao del tempio A debitamente chiuso, di un mosaico punico con segno di Tanit, caduceo, corona e testa bovina, di una piccola banchina e di scalette verso il naos, è d'interpretazione non facile: può darsi che il complesso del naos e del pronao sia stato riadoperato in epoca punica come luogo di culto, anziché come abitazione privata. Mancando di precisi dati di scavo e di uno studio adeguato della città punica, dobbiamo lasciare aperto il problema. Completa il quadro di questa porzione di V secolo a. C. del témenos una piccola struttura periptera a T con antistante portico, in asse col tempio A, da identificare come ingresso monumentale alla zona, edificato in rapporto con i due templi: vaghi confronti con edifici simili in Grecia ne porterebbero la cronologia a poco prima della metà del V secolo a. C.

Oltrepassata la strada che in epoca punica ha tagliato il témenos originario, si entra nella porzione d'area sacra più fittamente costellata d'edifici e di strutture per il culto. Manca uno studio moderno, che consenta con rilievi adeguati una lettura sicura dei molti edifici sacri dell'area, e dobbiamo accontentarci di conclusioni raggiunte spesso quasi un secolo e mezzo fa su questo complesso di centrale importanza per la storia culturale, politica e religiosa della città, nel quale in epoca ellenistica si sono inserite abitazioni e botteghe, rendendo i resti d'età greca di difficile lettura. Sembra abbastanza verosimile che questa porzione dell'originaria, immensa area sacra abbia conservato, malgrado la presenza d'edifici privati, il carattere di luogo deputato, ancora in epoca punica, alla vita collettiva, e in particolare a cerimonie religiose. Ce ne fa fede la costruzione, certamente databile dopo il 409 a. C., del piccolo tempietto B, a fianco del colossale tempio arcaico C e a questo allineato.

Il primo edificio che s'incontra provenendo da sud, dopo i resti di un grande basamento (ritenuto un altare arcaico), è il cosiddetto Mégaron, un sacello stretto e lungo (m 17,85 x 5,31) la cui forma ha fatto nascere il mito - tuttora tenacemente difeso - di un'architettura predorica con radici saldamente attestate nel mondo siceliota. L'edificio presenta una cella molto allungata (m 9,10 di lunghezza) con due basi per colonne lignee e un àdyton nel cui fondo fu aggiunto, in un secondo momento, un altro ambiente non comunicante. Il confronto col primitivo edificio del tardo VII secolo a. C., esistente sotto il tempio E, e la forma della cella dei principali templi arcaici di Selinunte fanno concludere che le proporzioni allungate dell'edificio e la presenza dell' àdyton sono elementi costanti dei più antichi edifici di culto selinuntino (ma non solo di Selinunte, come insegnano lArtemision di Corfù e lApollonion di Siracusa), trasmessisi, in virtù del conservativismo delle aree coloniali, alle più evolute architetture templari del VI secolo a. C. In epoca punica il Mégaron venne trasformato in deposito di munizioni per macchine belliche.

Quasi sullo stesso asse del cosiddetto Mégaron è il tempietto B (m 8,40 x 4,60), un prostilo tetrastilo con colonne ioniche e trabeazione dorica, esempio caratteristico della mescolanza degli ordini così in voga fra tarda epoca classica e primo ellenismo in area coloniale (si pensi al tempio del IV secolo a. C. di Megara Iblea e di un certo interesse per la discreta conservazione della policromia sul pesante stucco che ricopre il locale calcare. Davanti al tempio si conserva l'altare, di pianta quasi quadrata. Quanto alla divinità venerata, in assenza d'ogni tratto punicizzante dell'architettura, quasi di rigore anche nel più ellenizzato degli edifici di culto punici dedicati a divinità tipicamente fenicie, si può pensare che esso sostituisse il retrostante Mégaron (nel qual caso questo potrebbe ben essere un santuario di Demetra localizzato entro la città, come a Megara Nisea; cfr. Pausania, I 40, 6; mégaron eretto dal mitico re Care sull'acropoli Caria). Tuttavia, è forse preferibile considerarlo un santuario d'Asclepio, divinità assai popolare in ambiente punico col nome fenicio d'Eshmun, e venerata in edifici pienamente ellenizzanti, come a Solunto. Né va trascurata l'esistenza, nella Selinunte greca di Asklepiadai (F.D. III 1, n. 506).

Al centro di quest'area dell'antico témenos si erge la mole del tempio C, il cui lato settentrionale è stato rialzato circa mezzo secolo fa. È il più antico e il più grandioso dei templi dorici dell'acropoli, iniziato intorno al 560 a. C. e terminato non molto tempo dopo. Esastilo con diciassette colonne sui lati lunghi (m 63,7 x 24), presenta forme planimetriche allungatissime e tratti dell'ordine dorico di notevole arcaismo. Le colonne, in parte monolitiche, in parte a rocchi, sono prive di éntasis (cioè di rigonfiamento) e con un numero variabile di scanalature, da sedici a venti, mentre i triglifi sono assai allungati e di misure diverse fra loro per farli coincidere con gli assi delle colonne. La cella, soprelevata e munita di àdyton, è preceduta da una fila di quattro colonne, come nel tempio F, a mo' di colonnato del pronao. Le fronti, infine, erano decorate con metope scolpite, di cui se ne conservano tre (con Perseo e la Gorgonie, Ercole e i Cercopi, e il carro con Apollo ed Artemide), esempi insigni della plastica arcaica selinuntina. All'interno del tempio venne anche scoperto un piccolo deposito di cretule, sigilli in argilla destinati a legare documenti ufficiali, testimonianza che il tempio doveva fungere da archivio, se non di tutta la città, almeno di qualche collegio di magistrati. Di particolar importanza, sul piano architettonico e storico-artistico, è la decorazione fittile del tetto, recuperata in stato frammentario e conservata (con gli altri materiali fittili e scultorei degli scavi della città) nel Museo Nazionale di Palermo. La bellezza e l'eleganza della decorazione geometrica e floreale di questo rivestimento con potenti gronde a testa leonina rivaleggia con i complessi arcaici di Gela, Siracusa e di Megara Iblea, rivelando l'originalità dei coroplasti selinuntini, il cui capolavoro è proprio la colossale testa di Gorgonie che ornava il timpano del tempio C. Dinanzi alla fronte orientale del tempio si trovano infine i resti del grande altare rettangolare.

A poca distanza, verso nord-ovest, sorgono le rovine del tempio D , un altro periptero dorico con sei colonne sulla fronte e tredici sui lati lunghi, di dimensioni minori (m 56 x 24) del precedente, dal quale si distingue anche per diversi dettagli strutturali: le colonne sono qui fornite di éntasis, e manca l'avamportico della cella, sostituito da un pronao vero e proprio, distilo fra le ante, terminanti però in forma non di pilastro, ma di tre quarti di colonna; sempre presente è l'àdyton. La cronologia dell'edificio si può collocare immediatamente dopo la metà del VI secolo a. C., ma l'attuale costruzione sostituisce con tutta verosimiglianza una struttura più antica, come appare dalla disposizione del grande altare, posto obliquamente rispetto all'asse del tempio (parallelo però a quello del poco più antico tempio C), e a ridosso dell'angolo sud-est della crepidine.

Nei due grandiosi templi arcaici C e D dobbiamo riconoscere le sedi di due fra i più prestigiosi ed importanti culti cittadini di Selinunte: il ritrovamento, fra le rovine dei due edifici, di una dedica (IG XIV, 269) ad Apollo Paiàn e ad Atena ha fatto identificare sin dal secolo scorso (ma in epoca recente dimenticati del dato) i due templi come un Apollonion ed un Athenaion, conclusione abbastanza ovvia, visto il ruolo delle due divinità nel pantheon della madrepatria. Ancora una volta il confronto con Megara Nisea ci aiuta forse a identificare tutto il complesso dei culti di questa parte dell'acropoli. Seguendo la descrizione che Pausania (I 42, 4-6) fa della seconda acropoli di Megara Nisea, detta di Alcatoo, la successione dei templi presenta nell'ordine: sulla sommità, il tempio poliadico di Atena (con i sacelli minori d'Atena Nike e Atena Aiantis), quindi il tempio d'Apollo venerato con gli epiteti di Pythios, Dekatephòros e Archegetes, e infine il tempio di Demetra Thesmophòros. Si potrebbero perciò identificare i templi selinuntini dell'acropoli così in successione: tempio D o d'Atena (probabilmente ricostruito intorno alla metà del VI secolo a. C. e, come a Megara, contornato da sacelli minori) sul punto più alto dell'acropoli; tempio C o d'Apollo (si ricordi l'epiteto, significativo per una deduzione coloniale, di Archegetes, ma anche quello di Dekatephòros - "Conseguitore di decime": cfr. la Grande Tavola Selinuntina, con la dekàte della vittoria); cosiddetto Mégaron, o santuario di Demetra Thesmophòros. Se la ricostruzione è esatta, la corrispondenza tra le due colline di Selinunte arcaica, collina orientale ed acropoli e le due acropoli di Megara Nisea, acropoli Caria e acropoli di Alcatoo, sarebbe perfetta, una corrispondenza - giova osservare - già intuita dalla migliore letteratura ottocentesca.

La lettura del grande témenos dell'acropoli si completa visitando i resti di un grande portico a L all'estremità sud-est dell'area, in corrispondenza con la monumentale sostruzione delle mura di cui si è accennato poc'anzi, e, nella parte nord-orientale del témenos, le tracce d'almeno altri due piccoli sacelli (un oikos a quattro ambienti e il cosiddetto "tempio delle piccole metope"), di altari e di basi di probabili donari (manca un rilievo scientifico moderno). A due di questi templi minori dovevano appartenere le metope cosiddette Salinas (dal nome dell'archeologo che le scoprì), raffiguranti Europa sul toro, la triade deifica, Eracle e il toro, ed una sfinge, gruppo omogeneo attribuito dal Gabrici al "tempio delle piccole metope" e caratterizzato dal tipico kyma sotto il listello di coronamento (580-570 a. C.), e le due metope di recente scoperta con Helios e Selene su quadriga e con le Moirai, di cronologia non troppo lontana da quella delle precedenti. Questi due gruppi di metope provengono dalle fortificazioni puniche, dov'erano state reimpiegate, ed è impossibile attribuirle a edifici di culto ben precisi, dal momento che le scene mitiche in esse raffigurate - come nel caso degli altri rilievi metopali - non costituiscono guida sicura all'identificazione del culto praticato nel tempio, trattandosi in genere di un'antologia di miti che pretendono solo di celebrare le principali divinità della città (Apollo, Atena, Eracle, Zeus, e così via).

Ad epoca ellenistica risale infine l'occupazione dell'area nord-occidentale del témenos con una bella sistemazione a mercato: una lunga stoà (portico) borda una serie di dodici botteghe, con relativo retrobottega, ove era la scala per il piano superiore destinato ad abitazione, e costituisce il segno della destinazione a piazza della vasta zona, in sostituzione dell'antica agorà greca, evidentemente posta nell'area di Manuzza e abbandonata dopo il 409 a. C.

Lasciato il témenos, si può seguire la grande platéia nord-sud, passando lungo le fronti degl'isolati, spesso realizzate con blocchi poderosi. Nella loro fase attualmente visibile tali isolati sono d'epoca punica, ma sono in genere costruiti su precedenti fasi d'età greca arcaica. Percorrendo alcune delle vie trasversali est-ovest, soprattutto verso est, si trovano i diversi tratti messi in luce delle fortificazioni d'epoca punica, dove si possono notare, oltre all'enorme quantità di materiale d'epoca greca reimpiegato, torri e postierle per le sortite ed altri apprestamenti di difesa.

Si giunge così alla porta settentrionale dell'acropoli, che costituisce il vero e proprio mastio delle fortificazioni puniche, eseguito secondo i dettami della poliorcetica, la scienza degli assedi, nata nel corso del V secolo a. C., ma sviluppatasi soprattutto in epoca tardo-classica e proto-ellenistica. Tre torrioni semicircolari guarniscono, creando linee di tiro per macchine di difesa fra loro incrociate, l'accesso alla porta, che non è tracciato in maniera rettilinea, ma sinuosa, sempre per motivi di sicurezza e di difesa. Tra il bastione della porta e il colle di Manuzza (in epoca punica virtualmente disabitato), attraverso l'istmo che collega le due alture, è scavato un profondo fossato. La strada d'accesso alla città valica il fossato mediante un ponte, mentre una galleria sotterranea, parallela alla fronte settentrionale del bastione, si collega con porte ad arco al fossato verso nord e ad una seconda galleria verso sud, per consentire sortite di fanteria e di cavalleria in caso d'assedio. Altre casematte e bastioni muniti di scale fiancheggiano la strada come ulteriore protezione e per facilitare le uscite improvvise. La complessa opera ricorda il Castello Eurialo di Siracusa, ma non ne dipende interamente. Questo dato, che era in passato servito per collocare nel periodo della breve occupazione d'Ermocrate il sistema difensivo tardo di Selinunte, non può in ogni caso far abbassare la data del bastione e delle connesse fortificazioni ad epoca post-timoleontea, o addirittura alla breve scorreria di Pirro, ma aiuta a collocare le opere nella prima fase del possesso punico della città, quando Cartagine intese farne, soprattutto dopo il secondo trattato con Dionigi di Siracusa, una delle difese avanzate della propria eparchia siciliana.

[modifica] La Collina della Gaggera

Dopo la visita alla porta nord ed uno sguardo al colle di Manuzza, oggi desolato, ma sede principale dell'abitato greco (in origine la grande platéia nord-sud dell'acropoli proseguiva anche oltre l'istmo, raccordandosi ad angolo con la scacchiera dell'abitato di Manuzza), si ritorni sui propri passi, riattraversando le strade dell'acropoli e, mediante una trasversale est-ovest, si pieghi verso Ponente fino alle linea di fortificazioni del lato occidentale dell'acropoli, assai meno conservate di quelle sul versante orientale. Di qui si discenda nella valle del Modione, per risalire sulla collina della Gaggera, che si estende in senso nord-sud, parallela all'acropoli e alla città. Questa lunga altura extraurbana, come la corrispondente collina orientale, fa idealmente parte del complesso urbano, non solo perché costeggiante quello che originariamente era forse il più importante dei due porti fluviali di Selinunte, ma soprattutto perché, col prestigioso santuario della Malophòros e il cosiddetto tempio M, completava l'insieme cittadino. L'importanza del complesso portuale, rilevata da recenti esplorazioni, è sottolineata appunto dal fatto che i coloni v'impiantarono il santuario di Demetra Malophoros (insieme al culto di Persefone, col chiaro intento di reduplicare in questo luogo il santuario non meno celebre (Pausania, I 44, 3) del porto di Megara, Nisa (così come dettero l'appellativo di Minoa alla loro sottofondazione di Eraclea, verosimilmente in memoria dell'isoletta di Minoa, posta davanti al porto di Nisa). Documento archeologico di ciò sono le ancora antiche (ritenute normalmente àrgoi lithoi - ossia "pietre non lavorate", spesso dedicate nei templi, soprattutto di Apollo) ancor oggi visibili, miste alle normali stele e ad altari, alle spalle del santuario di Zeus Meilìchios, adiacente alla Malophòros. Un ricordo epigrafico è, forse, anche in un'epigrafe di dedica alla Malophòros, dove si ricorda il dono di un oggetto "trovato nel mare" (SEG, XII 411).

Varcato il ponticello che sorpassa il magro corso del Modione, l'antico Sélino, si giunge al santuario della Malophòros, posto sul declivio della sabbiosa collina, in vista dell'antico porto fluviale. Recinge tutto il vasto spazio sacro (circa m 60 x 50) un alto muro di témenos con la caratteristica terminazione superiore sagomata. L'andamento del muro è piuttosto singolare: in alto, a sud-ovest, è vistosamente irregolare rispetto agli altri lati, che seguono le linee di quota, e tale irregolarità è ribadita dalla presenza di un apparente allargamento verso sud-est del témenos, di forma trapezoidale allungata. Il motivo di tale irregolarità e dell'allargamento è generalmente attribuito alla necessità di trattenere le spinte del terreno sabbioso (fatto questo chiaramente riscontrabile nel rafforzamento del muro nella parte più a monte). Non può tuttavia non colpire la circostanza che l'andamento di questa parte irregolare è abbastanza rigorosamente parallelo all'orientamento del mégaron, sede della divinità, posto appunto nella parte più alta del recinto, così come è significativo il coincidere del mutamento d'orientamento col punto d'uscita del canale di pietra che reca all'interno del témenos l'acqua di una copiosa sorgente zampillante ancor oggi a poca distanza a nord del santuario. Anche in questo caso lo studio moderno delle fasi del santuario è tutto da fare e dobbiamo fermarci alla constatazione appena formulata, ipotizzando vari momenti nella delimitazione dell'area sacra, non tutti riconducibili a pure e semplici esigenze statiche.

Non è un caso che, annesso all'angolo sud-est del témenos, si trova un piccolo recinto quasi quadrato adiacente al propileo monumentale dell'area sacra, dedicato ad Ecate, dea triforme lunared infera mandata da Zeus alla ricerca di Persefone nell'Ade come Dadouchos ("portatrice di fiaccola") e come Phosphòros ("portatrice di luce"), come ricordano gli socoliasti (ad frg. 556 di Callimaco) e un noto pinax di Locri. La collocazione del piccolo Hekataion, indicativo del ruolo della dea ampiamente propagandato dalla religione eleusina, ci rammenta peraltro anche la sua funzione di guardiana (Phylax, Epipyrgìdia), di protettrice dell'adiacente ingresso al grande témenos. All'interno del piccolo recinto forse della prima metà del V secolo a. C., accanto all'ingresso orientale (quello settentrionale si collega direttamente al propileo del santuario maggiore), è il sacello della dea, e, all'angolo sud-ovest, un piccolo spazio quadrato recinto e pavimentato a lastre, d'ignota destinazione.

Il monumentale propileo doppiamente distilo in antis, della metà del V secolo a. C. è preceduto, sull'asse dell'ingresso, da una struttura circolare, tipica dei culti eleusini dei Sicilia, ma qui forse da interpretare come intenzionale replica regolarizzata del celebre pozzo Callicoro di Eleusi, posto appunto presso i Grandi Propilei del santuario. Adiacente alla parete nord dei propilei, impiegando il muro orientale del témenos come muro di fondo, era una lunga stoà con sedili, coeva ai propilei stessi, di cui sono visibili pochi resti, alterati da più tarde e povere strutture. Dinanzi alla stoà sono basi d'altari o piuttosto di donari. L'asse centrale dei propilei coincide virtualmente con la metà del grande altare rettangolare posto quasi al centro del témenos, rivenuto colmo dei resti delle ceneri dei sacrifici. L'asse maggiore dell'altare è approssimativamente orientato nord-sud, e doveva guardare verso est, mentre subito ad ovest, assieme ad una singolare aggiunta quadrangolare quasi all'estremità sud dell'altare, si trova un pozzo quadrato. Risalendo ancora, s'incontra il già menzionato canale di pietra che, entrato dal lato nord del muro di témenos, si dirige in linea retta verso l'altare, per poi piegare bruscamente verso sud appena giunto in prossimità dell'angolo nord-ovest dell'altare stesso, laddove era collocato anche l'altare pertinente al mégaron più antico. Il canale, come già detto, riveste una funzione centrale per la conformazione del témenos e per la struttura complessiva del santuario.

Subito oltre il canale è il mégaron della dea, di cui si conoscono due fasi ben distinte, l'una sovrapposta all'altra. La seconda fase (m 20,40 x 9,52) comprende un pronao (ben visibili sono gl'impianti per l'apertura dei battenti della porta a due ante), una grande cella e un àdyton con nicchia di fondo voltata, rimaneggiato in epoca tarda, mentre a nord del pronao s'appoggia un vano rettangolare verosimilmente di servizio. La fase più antica, conservata solo in fondazione, comprendeva, oltre al già ricordato altare, un semplice mégaron (interamente compreso entro il perimetro altare della cella della seconda fase) con ampia apertura sulla fronte ed una sorta di struttura più larga aggiunta in facciata, che non sappiamo quale funzione svolgesse nel culto e che solo in parte possiamo ricostruire. A sinistra del sacello della seconda fase sono due altre strutture, la prima quasi quadrata (apparentemente un'aggiunta tardiva) e la seconda una costruzione stretta e lunga con due vani appoggiata al lato sud-ovest del témenos. Appoggiata all'esterno del muro settentrionale di témenos è infine un'altra struttura a due vani, comunicante sia con l'esterno che con l'interno del recinto sacro, forse un ingresso secondario all'area, rimaneggiato in epoca tarda. La cronologia di queste due fasi del casello, e in genere di tutto il santuario della Malophòros, è lungi dall'essere stabilita. Si dà per scontato - e verosimilmente a ragione - che la prima fase, a giudicare anche dagli ex-voto e dalla semplicità dell'impianto, risalga alla prima fase della colonia (anni finali del VII secolo a. C.). Più incerta e discussa è la cronologia della seconda fase del sacello, cui corrisponde anche un'organizzazione generale del santuario col muro di témenos (o almeno una parte di esso), l'altare e il canale. Infatti le caratteristiche senza dubbio arcaiche della modanatura a cavetto, unica decorazione dell'interno dell'edificio, e la semplicità della cornice e dei timpani del sacello non consentono di datare l'edificio, come spesso si fa, ad un'epoca imprecisata anteriore all'introduzione dell'ordine dorico (attribuendo questi tratti ed altri, come la rastrematura degli stipiti della porta, a misteriosi influssi indigeni). L'edificio appartiene con tutta probabilità alla prima metà del VI secolo a. C., ma gli elementi arcaicissimi sembrano piuttosto frutto di un conservativismo di natura religiosa, quasi un tentativo di fissare nella pietra la tradizione delle decorazioni fittili, ben attestate a Selinunte sin dai primi anni di vita della colonia. Il santuario ebbe vita lunghissima, frequentato come fu ancora in epoca punica, e la cosa è comprensibile alla luce della diffusione ufficiale del culto della dea nella stessa Cartagine sin dagl'inizi del IV secolo a. C.; ulteriori trasformazioni esso subì in epoca bizantina. Tuttavia il suo splendore coincide con l'apogeo d'epoca arcaica di Selinunte, quando vi vengono dedicati doni preziosi (ad esempio ricercate ceramiche d'importazione e preziose lucerne marmoree decorate), anche se nel corso del V secolo a. C., non senza contaminazioni col popolarissimo messaggio proveniente da Eleusi (si pensi alla creazione dello Hekataion), la documentazione di ex-voto poveri, busti, statuette ed altri oggetti votivi fittili, dimostra - fatto di notevole importanza politica - il grande rilievo assunto fra le classi popolari dal culto, di natura agraria ma con profonde implicazioni nella psicologia collettiva in rapporto alla morte e alla riproduzione. Non a caso a poca distanza della Malophòros si situa una delle più grandi necropoli della città.

Connotazioni infere ha anche il piccolo santuario di Zeus Meilìchios ("Zeus dolce come il miele"), un culto della somma divinità infernale assai diffuso nelle colonie greche d'Occidente assieme a quello di una paredros, anch'essa Meilìchia, identificata ora con Hera ora con Afrodite, ma di stretta connessione con la propagazione della religione di Eleusi (non a caso un "antico altare" di Zeus Meilìchios era sulla via sacra da Atene ad Eleusi, oltre il Cefiso e di fronte ad un santuario di Demetra e Kore, già casa dell'eroe Fitalo, responsabile dell'introduzione della coltivazione del fico: Pausania, I 37, 2-4). La storia di questo piccolo témenos di Meilìchios (un quadrato di m 17 di lato incorporato - sembra - in un allargamento seriore del recinto della Malophòros verso nord-ovest) è oltremodo complessa. Il recinto presenta un colonnato con colonne di tipo diverso, provenienti da un rimaneggiamento ellenistico di un porticato precedente; verso il fondo del recinto è il piccolo sacello prostilo del dio (m 5,22 x 3,02), a quanto pare dorico con colonne monolitiche ed epistilio ionico senza gocce, ossia con quella mescolanza di stili del tempietto B dell'acropoli. Il culto, fondato in epoca greca, prosperò anche durante la dominazione fenicia, cui risalgono molti degli ex-voto tipici di questo santuario (piccole stele coronatela una doppia protome, maschile e femminile, raffiguranti la coppia divina). Che il culto sia proseguito in epoca punica è reso certo dallo stile del tempietto, ma l'attribuzione tout-court di tutte le stele alla fase punica può essere revocata in dubbio dal fatto che almeno una reca un'iscrizione greca, anche se è possibile - anzi probabile - che nella Selinunte punica fosse presente un'aliquota, forse nemmeno trascurabile, d'individui ellenefoni. È bene ricordare al riguardo che è solo dei moderni la distinzione radicale fra le due aree culturali, fenicio-punica e greca, di fatto profondamente intrecciate da moltissimi secoli nel Mar Mediterraneo grazie ai comuni (e ovviamente conflittuali) interessi emporici, e che l'attenzione della classe dominante punica per la cultura greca, capace di rappresentare meglio di quella nazionale (almeno dal tardo V secolo a. C.) i propri nuovi interessi per l'espansione territoriale e per la produzione agricola, è stata certamente grandissima, soprattutto nell'eparchia siciliana. Va ricordato ancora che, in quest'insieme di culti ctoni ed inferi (con le relative implicazioni nella sfera riproduttiva ed agraria, ma i cui ex-voto evocano anche la presenza del vicino porto ed una delle funzioni, collegate con lo scambio, dell'area sacra), è stato rinvenuto, nei pressi dell'ingresso del recinto, un rilievo con una scena di ratto, probabilmente quello di Kore da parte di Ades, tema centrale del mito celebrato nelle feste di quest'importantissimo santuario extraurbano selinuntino.

Procedendo lungo le pendici della collina della Gaggera, poco oltre si raggiunge una copiosa sorgente, la stessa che alimentava il canale di pietra che attraversa da nord a sud il santuario della Malophòros. Pochi metri al di sotto, più a nord, sorgono i resti del cosiddetto tempio M, un edificio rettangolare (m 26,80 x 10,85) costruito a blocchi regolari e conservato, tranne la parete di fondo verso monte (crollata per intero - per ben otto metri d'altezza - con tutte le strutture del timpano), quasi ovunque soltanto in fondazione. L'edificio si presenta bipartito, con un "pronao" e una "cella", ed è preceduto da una gigantesca gradinata di quattro gradini, il cosiddetto altare, e da un'antistante vasta area lastricata: molte sono le difficoltà implicate dall'interpretazione del complesso come tempio, specialmente per la forma, la collocazione e l'impianto dell'altare. Una recente ipotesi ha risolto molto brillantemente questa ed altre aporie dell'impianto (in particolare i dislivelli delle strutture), identificandolo con una fontana monumentale, in stretta relazione con l'adiacente porto e il santuario della Malophòros. Alimentata dalla vicina sorgente (appena 50 metri a monte), la fontana sarebbe stata composta da una cisterna (la "cella"), da un bacino chiuso, forse protetto da un portico di cui sarebbero resti alcuni rocchi di colonna rinvenuti a valle (il "pronao"), e da una gradinata d'accesso (l'"altare"). La cronologia dell'edificio (metà del VI secolo a. C.), assicurata da tenui dati di scavo, ma soprattutto dalle terrecotte architettoniche raccolte, lo avvicina ad altre grandi realizzazioni consimili d'epoca tirannica: la presenza a Megara Nisea di una grande e celebre fontana costruita dal tiranno Teagene (ultimi decenni del VII secolo a. C.) rappresenterebbe l'indubbio modello seguito dalla lontana colonia, che abbiamo visto esemplarsi per più rispetti sulla madrepatria. L'eventuale tiranno selinuntino promotore dell'opera sarebbe stato desideroso d'atteggiarsi secondo la prestigiosa immagine di Teagene, sotto il quale Megara era stata fra le prime città della Grecia, sottraendo ad Atene il prezioso possesso di Salamina. L'edificio aveva forme doriche, con metope lisce: due metope scolpite con Amazzonomachia ed altri frammenti pertinenti a metope, rinvenuti nello scavo, difficilmente appartenevano alla decorazione della facciata, per via del modulo minore delle metope lisce con sicurezza pertinenti all'edificio.

[modifica] Bibliografia

  • Barone Vito, Selinunte: vicende storiche, illustrazione dei monumenti, Palermo 1979
  • F. Coarelli - M. Torelli, Sicilia, Guide archeologiche Laterza, Bari 1984,
  • Bilello Francesco, Selinunte: storia e guida, Marinella 1992
  • Mistretta Gioacchino, Selinunte: storia e archeologia di una colonia greca, Castelvetrano 1997
  • Marconi Clemente, Selinunte: le metope dell'Heraion, Modena 1994

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