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La signora Dalloway

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La signora Dalloway è un romanzo di Virginia Woolf pubblicato nel 1925.

[modifica] Il romanzo

Pubblicato nel 1925 da Virginia Woolf, il romanzo narra la giornata di Mrs. Dalloway e di altri personaggi che, a turno, si trovano sia sullo sfondo che sulla superficie della vicenda.

Clarissa Dalloway è una ricca signora quarantenne che organizza un party in casa per la sera.
Nella prima parte del libro la troviamo a passeggio per le strade di Londra, tutta presa da ricordi della sua vecchia vita a Bourton, quando, in compagnia della vecchia zia e di tanti suoi amici, trascorreva le giornate in perfetta armonia.

La Woolf fa uso della tecnica del flusso di coscienza per descrivere lo scenario. Un determinato oggetto contiene in sé il mistero di un qualsivoglia ricordo disperso nei meandri del nostro inconscio. In questo modo la teoria di Marcel Proust riguardo il potenziale magico che contengono in sé oggetti e situazioni,trova un nobile specchio nelle intenzioni della Woolf di esplicare al meglio la pratica dell’asserzione. Così il movimento ondeggiante di una foglia in uno dei tanti parchi londinesi, può ricordare a Clarissa la passione per la danza o le lunghe cavalcate a Bourton, e l’incontro mattutino con Hugh Withbread porta a bussare alla mente di Clarissa diversi ricordi riguardanti la sua giovinezza come il ricordo di Peter Walsh, suo corteggiatore a Bourton, l’uomo che aveva rifiutato per Mr. Dalloway (Richard Dalloway era di certo molto più ricco e di buone maniere rispetto a Peter). Ma il pensiero di Peter la accompagna quasi ogni giorno: per le strade mentre passeggia,ad una delle tante feste che organizza a sera in casa (e dio solo sa quanto Peter la giudicherebbe ridicola se solo la vedesse!).

Questo sottile gioco della Woolf – un flusso eterno di ricordi e realtà, passeggiata,ricordi e considerazioni,se,possibilità,domande,risposte, impossibilità della risposta – porta il romanzo a sfornare un flusso continuo di informazioni già dall’inizio.

Mano mano che andiamo avanti compaiono personaggi di cui non abbiamo mai sentito parlare; dei perfetti sconosciuti che la Woolf ci propina e presenta col massimo grado di semplicità,e con una sfumatura di non-chalance franco-sassone che tanto era in voga a inizio del Novecento a Londra.

La Woolf ci presenta tutta la sua società,quella borghese spicciola,la parte viscida di Londra,e quella nobile e reale a cui tende tutta la civiltà,i sobborghi poveri – quasi tralasciati,sullo sfondo - la gente infima, i colti, i belli e quelli brutti, orrendi e emarginati dalla società.
Perché l’Inghilterra in fondo è snob,come Clarissa. Perché Clarissa incarna in tutto e per tutto la società britannica d’inizio Novecento, tutti i difetti e pregi, e sono i suoi stessi amici e ammiratori ad accorgersi e a mal sopportare l’atteggiamento snob di Clarissa. Peter sa perfettamente che Clarissa è snob,ma ciò nonostante non riesce a smettere di amarla. E così pure Sally Seton sopporta le bizze dell’amica. Quello che provano i due è una sorta di amore patriottico inconscio verso l’Inghilterra, i suoi vizi e le sue creature – Clarissa - .

Clarissa è il perfetto prodotto dell’alta società inglese d’altrosecolo,e Peter è costretto a fuggirne, a tentare la fortuna nell’altrettanto britannica India (se l’Inghilterra è nobile e accoglie i nobili, l’India è la colonia povera che accoglie i ‘’mercanti’’ in cerca di fortuna). Ma egli sa,in cuor suo,che fuggire dalla patria e dai prodotti sociali che tanto afferma di odiare della sua Inghilterra,è perfettamente inutile.

D’altro canto,la stessa Clarissa porta in sé una venatura di mistero. La malattia dalla quale è da poco uscita non viene mai affrontata in modo diretto dalla Woolf, anzi pare quasi celata, con ostinazione e vergogna. Sembra quasi che Virginia voglia trasferire in Clarissa tutta la frustazione che può sentire una donna bella e intelligente – tanto più d’alta società – in modo sottile,quasi nascosto. Eppure si sente tutto il dolore di quel mostro, quell’odio come un formicolio lungo la schiena; tutto il dolore della stessa Virginia Woolf – che nella realtà ha davvero tentato diverse volte il suicidio prima di riuscirci – e tutta la sua emancipata natura di donna. Si percepisce la frustante abnegazione di Clarissa in quel ruolo al di sotto delle proprie possibilità.
E qui nasce l’alter-ego fantastico – o reale, che dir si voglia – di Septimus. La Woolf fa trovare degno sfogo di se stessa, del proprio mostro, del proprio lato maschile, nella figura di Septimus.
Clarissa nasce da un continuo tendere alla perfezione di Virginia – un personaggio che non poteva andare sgualcito,un personaggio che doveva rimanere immacolato,pur con tutta la frustazione che si portava dentro - , Septimus nasce dal diavolo interiore della Woolf.

Il libro si rompe – senza mai spezzarsi – in due parti,che hanno due figure centrali. I lunghi monologhi di Septimus,solo con se stesso,e i lunghi discorsi interiori,frastagliati di ricordi,della perfetta donna di mondo,Clarissa Dalloway.

Ed ecco Septimus Warren Smith: un ex soldato scampato alla guerra, amante delle arti, della letteratura, dell’Inghilterra, di Shakespeare. E la sua moglie italiana fantasma, tale Lucrezia Smith.
Smith,un cognome qualunque,lo dice la stessa Woolf. E quel Septimus,nome che cerca di ridare originalità al personaggio. Retaggi di tragedie shakespeariane dominano il contesto di Septimus: la follia amletiana pervade Septimus,e quasi a un punto tocca anche Lucrezia, quasi pervasa – come Ofelia – dalla solitudine del marito,quasi complice di quella solitudine che diventa finalmente dualità – prima dell’estremo gesto suicida di Septimus - .

Ma nel romanzo troviamo spesso anche l’inquietante amore per le donne che contraddistingueva tanto la Woolf.
Clarissa,la donna insospettabile di macchie,la donna di mondo,d’alta classe e società,non nasconde a se stessa di provare – spesso – attrazione per esponenti del proprio sesso.
Il rapporto ambiguo con Sally Seton pervade tutto il romanzo. Clarissa sembra eternamente affascinata da Sally, dal suo carattere ribelle, libertino, privo di regole; dal suo sangue francese, dai sigari che fumava a Bourton (cose che non si confacevano certo alle signore). Clarissa è affascinata da quel sentimento,come lo è la stessa Virginia, quel puro disinteressato amore. Ed è certa di aver provato l’ebbrezza di un amore puro insieme a Sally. E, tuttavia, perché oggi la rifiuta? Perché a quarant’anni non trova neanche più il tempo di andare a trovare Sally a Manchester? Solo perché ha sposato un uomo di basso rango?
Attenta a non sfigurare di quel poco il ruolo aristocratico di Clarissa – ma senza mai farla apparire antipatica – la Woolf rende la giusta coerenza al personaggio,troppo snob e pieno di sé per cedere a un vecchio amore con una donna – cosa che,in cuor suo, non avrebbe mai ammesso – per una gita a Manchester in casa di gente meno nobile.

In fondo Clarissa sposa Richard Dalloway e non Peter Walsh! Richard è un uomo ricco, nobile,con una buona posizione,ed è anche affascinante e di buon spirito e carattere. Mentre Peter è un uomo alla mano, pieno di spirito, intelligente, ma amante del vizio,dei viaggi e delle donne, privo di ogni interesse per l’alta società londinese. Potrebbe passargli accanto il Primo Ministro e neanche se ne accorgerebbe! E Clarissa provava un odio irrefrenabile verso quel Peter! Non si capacita di Peter, del suo modo di fare e del suo attegiamento critico. Come non si capacita della signora Kilman,la brutta insegnante di storia della figlia Elizabeth.
La Kilman incarna in pieno la figura della società ecclesiastica- religiosa in voga a Londra. La credenza, il mistico sentimento, la fiducia in Dio e nella Provvidenza,che tanto trovano inattuale e irreale sia la Woolf che il suo naturale contro-altare Clarissa. Ed Elizabeth è la sua figliola, quella che tanto avrebbe voluto libera dalle catene della religione,e che si trova invischiata nelle grinfie della Kilman. La Kilman è tutto ciò che di brutto rappresenta la natura umana, così come il dottor Holmes, quello che Septimus usa definire la natura umana in senso dispreggiativo. Quello da cui la sua lucida follia vuole fuggire, il dottore dell’umanità, il primo nemico dell’uomo, quello che vuole salvarlo, ma che lo insegue. E così pure il pessimo dottor Bradshaw, il colto,amato e rispettato medico che consiglia a Lucrezia di internare Septimus. Tutti quei dottori che vogliono fare di lui un dolente umano rinchiuso in un manicomio rappresentano la castrazione della specie umana. Quella sorta di tarpatura delle ali della libertà che tanto ci insegue dalla nascita,la limitazione del raggio d’azione, la legge che insegue il ribelle – e l’artista - .

"Siamo tutti in carcere" mormorano Sally e Peter alla fine. Ed è proprio quello che vuol dare a intendere la Woolf.
Il carcere che Clarissa si è costruita, con la mascherata baldoria delle sue feste con l’alta società. Il cognome, la perdità d’identità, lei è diventata – o forse è sempre stata – la signora Dalloway. Come la stessa autrice che, perso il proprio cognome di Stephen col matrimonio, prende quello di Woolf. E proprio nel mezzo di questo grande carcere,nel mezzo della spietata festa che è costretta – ma nello stesso tempo è felice – di fare, la moglie del dottor Bradshaw annuncia a Clarissa la morte di un uomo. Un uomo,uno sconosciuto, forse un folle, è morto gettandosi dalla finestra. E Clarissa prova una specie di empatia, nessun tipo di dolore, né compassione, ma solo riconoscimento di se stessa. E’ quello il giusto culmine del romanzo,il punto di connessione tra la natura di Clarissa e la follia di Septimus. Il punto che li unisce in un orgasmo di felicità. Ed è anche il punto di più intensa gioia per Clarissa il sapere della morte del misterioso sconosciuto. Septimus muore per sfuggire il passato, la morte di Evans – l’amico caduto in guerra – e la natura umana, nelle vesti dei due medici. Muore proprio nel momento in cui aveva ristabilito quel minimo di contatto che lo legava a Rezia. E porta con sé il suo dolore,e l’eterno patire della morte.
Forse verrà ricordato da qualcuno – e certamente durante la festa il suo nome assume le sembianze di una presenza inquietante - forse verrà dimenticato poco dopo i funerali.

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