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Corte costituzionale

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  • Corte costituzionale



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Categorie: Politica, Diritto e Stato
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Una Corte costituzionale è un organo giurisdizionale dotato di speciali competenze, definite anche "super-legislative" perché in grado di vanificare la volontà espressa dal legislatore ordinario.

Le corti costituzionali o, in generale, gli organi che esercitano la giustizia costituzionale, svolgono la fondamentale funzione di garanti della costituzione di un dato ordinamento. L'idea dell'esistenza di una legge superiore, è antichissima. L'esempio più interessante di giustizia costituzionale moderna è offerto dalla Corte suprema degli Stati Uniti, che nella sentenza Marbury vs. Madison affermava che «il popolo ha il diritto originario di stabilire, per il suo futuro governo, quelle regole che ritiene adeguate al conseguimento della felicità [ ... ma... ] i poteri delle camere legislative sono definiti e limitati; la Costituzione è stata posta per iscritto per evitare che questi poteri siano mal compresi o dimenticati [...] o la Costituzione è una legge superiore, non modificabile con mezzi ordinari, ovvero è simile agli atti legislativi ordinari e, come tale, sempre modificabile dal potere legislativo. Se la prima parte di questa proposizione alternativa è vera, un atto legislativo contrario alla Costituzione non è legge».

Alle corti costituzionali sono quindi in genere affidate funzioni di controllo della conformità formale e sostanziale alle disposizioni della Costituzione degli atti degli organi di indirizzo politico (principalmente: Parlamento e Governo).

Numerose costituzioni del secondo dopoguerra, attribuiscono alla competenza di corti costituzionali anche la risoluzione dei conflitti tra gli organi e i poteri dello Stato.

Indice

[modifica] La Corte costituzionale italiana

La Corte costituzionale italiana, detta anche Consulta per il palazzo in cui ha sede, è prevista dalla Costituzione della Repubblica Italiana del 1948. Le norme sul suo funzionamento sono contenute nella Costituzione, nella legge costituzionale n. 1 del 1948, nella legge costituzionale n. 1 e nella legge n. 87 del 1953, nonché nelle norme integrative (1956, più volte modificate) e nel regolamento generale (1966, anch'esso più volte modificato) di cui la stessa Corte si è dotata.

[modifica] Le competenze

In base all'art. 134 della Costituzione, la Corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni, sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra Regioni e sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione. Di grande rilevanza sono i giudizi sui conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato e tra Stato e regioni.

Inoltre spetta alla Corte giudicare l'ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo, introdotta con la legge costituzionale n. 1 dell'11 marzo 1953.

[modifica] Composizione

Corte Costituzionale
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Corte Costituzionale

L'art. 135 comma 1 della Costituzione afferma che «la Corte costituzionale è composta di quindici giudici nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ad amministrative» (di questi, tre sono eletti da un collegio del quale fanno parte il presidente, il procuratore generale, i presidenti di sezione, gli avvocati generali, i consiglieri e i sostituti procuratori generali della Cassazione; uno da un collegio del quale fanno parte il presidente, i presidenti di sezione ed i consiglieri del Consiglio di Stato; uno da un collegio del quale fanno parte i presidente, i presidenti di sezione, i consiglieri, il procuratore generale ed i viceprocuratori generali della Corte dei conti - art. 2, comma 1, lettere a), b) e c) della legge n. 87 dell'11 marzo 1953).

In questo modo si ha un organo equilibrato; equilibrio che risiede nel carattere misto dell’organo con un’alta qualità tecnico-giuridica ed una sensibilità politica.

La nomina da parte del Capo dello Stato è sicuramente un atto presidenziale in senso stretto per il quale è prevista la controfirma del Presidente del Consiglio dei ministri, che può essere negata nel caso di mancanza dei requisiti nei candidati o per gravi ragioni di opportunità. Quindi il contenuto del decreto è deciso autonomamente dal Presidente della Repubblica, e la controfirma ha solo lo scopo di certificare la regolarità del procedimento seguito.

L’elezione ad opera del parlamento in seduta comune avviene a scrutinio segreto e con la maggioranza dei due terzi dei componenti dell’Assemblea. Per gli scrutini successivi al terzo è sufficiente la maggioranza dei tre quinti. L’alto quorum ha spesso determinato ritardi (oltre il termine di un mese previsto da norma costituzionale) nell’elezione dei giudici, pericolosi perché la Corte per funzionare necessita di almeno 11 giudici. Tanto che nel 2002 per la prima volta la Corte ha rinviato la discussione su una delle cause in ruolo per mancato raggiungimento del quorum di 11 giudici.

L’elezione da parte della magistratura avviene con una maggioranza assoluta dei componenti del collegio e in mancanza, in seconda votazione a maggioranza relativa con ballottaggio fra i candidati, in numero doppio di quelli da eleggere, più votati. I giudici sono scelti tra magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinarie ed amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio. In relazione a questa componente elettiva si è posto il problema di stabilire che cosa si debba intendere per suprema magistratura: la tesi che ha prevalso è di ritenere che il soggetto debba possedere requisiti firmali (cioè l’essere magistrato) che sostanziali (cioè esercitare effettivamente le funzioni).

Il giudice così nominato resta in carica nove anni (decorrenti dal giuramento), alla scadenza dei quali cessa dalla carica e dall'esercizio delle funzioni. Non è, quindi, possibile la prorogatio del giudice con mandato scaduto, in attesa della nomina e dell'entrata nelle funzioni del nuovo giudice. Ciò potrebbe comportare qualche problema, per il fatto appena menzionato che non sempre il termine di un mese per la nomina di un nuovo giudice viene rispettato.

Il mandato non può essere rinnovato. La Corte elegge tra i suoi componenti il presidente, che rimane in carica tre anni ed è rieleggibile (salvo i termini di scadenza novennali dall'ufficio di giudice). Ad ogni modo, il presidente viene eletto in genere tra i giudici che stanno concludendo il mandato, in modo da garantire una certa mobilità della carica. Il presidente della Corte Costituzionale (oggi il giudice Franco Bile) è la quarta carica dello Stato.

Accanto alla composizione ordinaria la Corte conosce una composizione integrata, che si ha ogni volta che la Corte è chiamata a giudicare dei reati presidenziali di alto tradimento e di attentato alla costituzione, previa messa in stato di accusa del Capo dello Stato dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri. In tal caso la Corte è integrata con 16 membri tratti a sorte da un elenco di cittadini eleggibili a senatore che il Parlamento compila ogni nove anni mediante l’elezione con le stesse modalità stabilite per la nomina dei giudici ordinari. In tal caso la Corte deve essere composta da almeno 21 giudici e quelli aggregati devono essere la maggioranza.

[modifica] Gli elementi del giudizio costituzionale

[modifica] Il parametro

In via del tutto astratta, qualsiasi disposizione costituzionale (sia essa contenuta nella Costituzione o in leggi costituzionali) è idonea a svolgere la funzione di parametro in un giudizio di fronte alla Corte costituzionale. Più concretamente, l'estensione del parametro varia a seconda del tipo di giudizio, nonché dell'oggetto dello stesso.

Così, se per i giudizi in via incidentale e in via principale esso consiste nelle «disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali che si assumono violate», in caso di conflitti tra poteri dello Stato o tra Stato e Regioni esso è, rispettivamente, individuato dalla sfera di «attribuzioni determinata tra i vari poteri da norme costituzionali» e dalla «sfera di competenza costituzionale».

Inoltre, il parametro può essere costituito sia da norme ricavabili da disposizioni espresse, sia da norme implicite, derivanti da combinati disposti, da principi o consuetudini costituzionali, nonché da consuetudini internazionali (immesse nel nostro ordinamento dalla clausola di adeguamento contenuta nell'art. 10 della Costituzione).

Un ultimo cenno merita la così detta «elasticità» del parametro che innanzi tutto è composto non solo da elementi di natura normativa, ma anche da elementi di natura fattuale (si pensi alle questioni di fatto che influenzano - per la loro apertura strutturale - i principi costituzionali; ma si pensi anche al giudizio di ragionevolezza, che consiste in un giudizio sulla congruità delle norme rispetto ai fatti), elementi di natura fattuale che possono essere efficaciemente sintetizzati con l'espressione, originariamente adottata dalla dottrina costituzionalistica francese, di «blocco di costituzionalità». Ma è anche da sottolineare come, in relazione ad alcuni particolari oggetti, e per la peculiare natura della fonte o per la materia trattata, il parametro di costituzionalità possa «stringersi» o «allungarsi». Così, in relazione ai giudizi concernenti le leggi costituzionali e di revisione costituzionale, le norme concordatarie (contenute nei Patti Lateranensi, cui fa espresso riferimento l'art. 7 della Costituzione) e le norme comunitarie (immesse nell'ordinamento nazionale in base al disposto dell'art. 11 della Costituzione) esso si riduce ai soli «principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale». Al contrario, in relazione ai decreti legislativi, il parametro si amplia, secondo lo schema della norma interposta, anche alla legge di delegazione, la quale (pur rimanendo fonte pleno iure primaria) si pone così, rispetto al decreto legislativo, su di un gradino intermedio tra piano costituzionale e piano legislativo, «degradando», nel reciproco rapporto, il decreto legislativo stesso a fonte subprimaria.

[modifica] L'oggetto

L'oggetto del giudizio costituzionale, in base ad una interpretazione letterale dell'art. 23, comma 1, lettera a) della legge n. 87 del 1953, dovrebbe essere individuato nelle disposizioni di legge; in realtà, a causa dell'ineliminabilità dell'attività interpretativa e al prevalente carattere incidentale (su cui v. infra), il giudizio viene «traslato» sulle norme; oggetto del processo costituzionale, quindi, è la norma; ma gli effetti di esso ricadono sulla disposizione.

Per la struttura del giudizio di fronte alla Corte, poi, si può affermare che l'oggetto non si riduca alla semplice norma, ma vada ad abbracciare la situazione normativa, comprendendo quindi le interconnessioni sistemiche e i fatti del processo a quo.

[modifica] I vizi

Una legge o un atto avente forza di legge, quando è contrario alla Costituzione, è viziato, sub specie di invalidità; ossia, l'atto, che pur viola una fonte sovraordinata, continua a produrre i suoi effetti fino al momento in cui non interviene una pronuncia che ne dichiara il vizio (principio così detto del favor legis).

I vizi di invalidità, a loro volta, possono essere distinti in formali e sostanziali. Si avrà, perciò, una invalidità formale quando l'atto venga adottato in violazione della forma prescritta (ad esempio, una legge costituzionale che sia approvata con il procedimento legislativo ordinario, oppure una legge approvata in un testo differente dai due rami del Parlamento). Si avrà, invece, una invalidità sostanziale quando, pur nel rispetto delle norme procedurali, si abbia una violazione delle norme sostantive (ad esempio, una legge che ponga in essere delle discriminazioni basate sul sesso, sulla razza, su convinzioni religiose, filosofiche, politiche).

Agli albori della giustizia costituzionale, la Scuola di Vienna, di cui fu uno dei massimi esponenti Hans Kelsen, teorizzò l'inesistenza dei vizi sostanziali. Infatti, secondo questa dottrina, tutti i vizi sono formali: una legge, anche quando violi un principio costituzionale, è viziata nella forma, in quanto il vizio verrebbe meno se fosse stata approvata, anziché con il procedimento ordinario, con il procedimento aggravato previsto per la revisione costituzionale. Questa teoria, però, va incontro a due ordini di critiche. Innanzi tutto, essa riduce il vizio sostanziale a vizio formale. Ma per ridurlo, deve prima riconoscerlo, il che è contraddittorio. Inoltre, la più recente dottrina costituzionalistica - suffragata anche da numerose sentenze della Consulta - afferma che nel testo costituzionale, accanto a disposizioni modificabili con il procedimento di revisione, ve ne sono altre (i «principi supremi dell'ordinamento») che, una volta poste dal potere costituente, possono essere modificate solo da quest'ultimo, non essendo nella disponibilità dei poteri costituti, tra i quali, necessariamente, si deve inquadrare anche il potere di revisione costituzionale.

Tornando ai vizi sindacabili dalla Corte costituzionale, essi possono consistere tanto in una violazione diretta di una norma della Costituzione, quanto nella violazione di una norma implicita, dedotta da un combinato disposto, o dello spirito complessivo della carta costituzionale.

Quest'ultima violazione è quella che, nella giurisprudenza della Consulta, viene indicata con il termine di irragionevolezza. Fermo restando, infatti, che in base all'art. 28 della legge n. 87 del 1953 il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento, il principio di eguaglianza, contenuto nell'art. 3 della Costituzione, rappresenta il limite ultimo della discrezionalità del legislatore e, contemporaneamente, il metro minimo di riesame delle sue scelte, imponendo al legislatore stesso un duplice onere: di coerenza (a livello di testo o di settore legislativo: sindacato intrinseco) e di ragionevolezza (a livello di ordinamento costituzionale complessivo e di bilanciamento tra fini e valori costituzionali: sindacato estrinseco). La ragionevolezza rappresenta, quindi, il trait d'union tra il concetto metagiuridico di giustizia e quello giuridico di legittimità: «non occorre la coerenza, basta la non contraddizione; non occorre la conformità, basta la compatibilità».

[modifica] Le decisioni della Corte

Le decisioni della Corte costituzionale assumono la forma delle decisioni giurisdizionali tipiche: sentenze (decisioni di merito), ordinanze (decisioni processuali), decreti (decisioni procedurali). Posta la modesta rilevanza esterna dei decreti, si può quindi affermare che le pronunce della Corte si possano distinguere in due categorie: le sentenze di accoglimento e le decisioni di rigetto (siano esse di merito o processuali).

Per quanto riguarda le decisioni processuali, esse si basano su considerazioni che non consentono di passare all'esame del merito della questione di legittimità costituzionale. Nella giurisprudenza della Consulta, si può notare come esse assumano promiscuamente la forma delle sentenze o delle ordinanze, non contando tanto la forma stessa, quanto il motivo che sta alla base della decisione di non passare al merito, e presentano in alcuni casi un carattere sostanzialmente decisorio.

Più complesso si presenta l'esame delle decisioni di merito. Esse possono essere, innanzi tutto, divise in sentenze di accoglimento, tramite le quali la Corte si pronuncia sia sulla questione che sulla legge, e decisioni di rigetto (in forma di sentenza o di ordinanza), le quali invece si pronunciano solo sulla questione, in quanto non spetta alla Corte un generale potere di esternazione della costituzionalità o incostituzionalità delle leggi, ma solo un potere repressivo dell'incostituzionalità.

Per quanto riguarda gli effetti tipici nel tempo, la pronuncia di rigetto è costitutiva, avendo quindi efficacia ex nunc, mentre la sentenza di accoglimento, dichiarativa, ha rilevanti, anche se non assoluti, effetti ex tunc, che arretrano solo di fronte ai rapporti giuridici esauriti (con la rilevante eccezione del giudicato penale).

Una questione di legittimità semplice, la quale ossia si possa concludere con la caducazione o il mantenimento di una disposizione, si risolverà in una pronuncia di fondatezza o infondatezza. Una questione di legittimità costituzionale complessa, invece, ossia una questione per la quale non è sufficiente un'operazione meramente ablatoria da parte della Corte, verrà risolta con uno degli strumenti di cui la giurisprudenza della Consulta si è dotata nella sua attività, ossia con una decisione interpretativa oppure con una sentenza manipolativa.

Nelle decisioni interpretative la Corte si pronuncia non sulla disposizione di legge nel significato normativo individuato dal giudice a quo, bensì su un diverso significato normativo che essa stessa ritiene contenuto nella disposizione impugnata.

Le decisioni interpretative di rigetto si dicono correttive quando la Corte «corregge» l'interpretazione fornita dal giudice a quo la quale si discosta dal diritto vivente; si dicono invece adeguatrici (o decisioni interpretative di rigetto in senso stretto) quando la Corte individua nella disposizione impugnata dal giudice a quo un diverso significato, eventualmente anche contraro al diritto vivente, ma conforme al dettato costituzionale.

Le sentenze interpretative di accoglimento, invece, le quali sostanzialmente si basano sullo schema di una doppia pronuncia, vengono adottate soprattutto nelle ipotesi in cui si mantenga un diritto vivente difforme a una precedente decisione interpretativa di rigetto.

Per ciò che concerne gli effetti delle decisioni interpretative, mentre le sentenze di accoglimento hanno gli effetti ordinariamente collegati a questo topo di pronuncia, maggiormente controversa è la questione riguardante le decisioni di rigetto, dovendosi distinguere tra le decisioni di rigetto in senso stretto, nelle quali l'interpretazione fornita dalla Corte è individuabile sia nella motivazione che nel dispositivo, dalle decisioni di rigetto interpretative, nelle quali invece l'interpretazione fornita dalla Corte è presente nella sola motivazione. Si deve comunque notare come solitamente la giurisprudenza ordinaria si adegui alle interpretazioni operate dalla Corte, discostandosone soltanto in caso di invincibile opposto convincimento ermeneutico.

Le decisioni manipolative, invece, comportano un'alterazione del parametro (che viene esteso nella sua interpretazione e applicazione) oppure del testo di legge. Queste ultime, a loro volta, possono essere:

riduttive
quando espungono, a seconda dei casi, parte della norma oppure parte della disposizione
addittive
quando aggiungono un contenuto normativo assente nella disposizione. Possono essere addittive di garanzia (o di prestazione) quando la pronuncia della corte introduce una norma (il che avviene quando la pronuncia è «a rime obbligate», ossia quando la norma aggiunta dalla Corte è direttamente ricavabile dal disposto costituzionale), oppure addittive di principio, quando cioè la Corte si limita ad indicare un principio, il quale può orientare 'attività interpretativa del giudice ovvero l'azione del legislatore
sostitutive
quando, con una duplice componente (ablatoria e addittiva) una norma o una disposizione viene sostituita con altra norma o altra disposizione.

Come la decisioni della Corte possono avere effetti manipolativi nello «spazio», questi effetti si possono avere anche nel tempo, con decisioni manipolative per il passato (pro praeterito: incostituzionalità sopravvenuta e incostituzionalità differita) oppure per il futuro (pro futuro), con le quali la Corte - pur riconoscendo nella motivazione l'illegittimità della disposizione impugnata - rinvia l'annullamento con un dispositivo di rigetto (sentenze-indirizzo o monitorie di rigetto, sentenze di incostituzionalità accertata ma non dichiarata; vengono adottate soprattutto per sollecitare l'intervento del legislatore, altrimenti inerte).

Per concludere questo rapido esame delle decisioni della Corte, si deve ricordare che esse, in base all'art. 18 della legge n. 87 del 1953, sono motivate (in fatto e in diritto le sentenze; «succintamente motivate» le ordinanze). La motivazione - non prevista da fonti costituzionali, e da alcuni Autori ritenuta anche non costituzionalmente obbligatoria - assume importanti funzioni, sia politiche che giuridiche, essendo essa rivolta, innanzi tutto, al giudice a quo, ma anche al legislatore, per l'eventuale seguito legislativo, e a tutti gli operatori del diritto.

[modifica] Le attribuzioni

Come si accennava sopra, la Corte costituzionale è competente a giudicare delle controversie relative alla legittimià costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni; dei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e tra Stato e Regioni; delle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica per i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione; competenze cui si è aggiunto il sindacato sull'ammissibilità dei referendum. Si può quindi affermare che essa svolga una funzione garantista (della legittimità e della legalità costituzionale) e una funzione arbitrale (per ciò che concerne i conflitti).

[modifica] Il giudizio sulle leggi

[modifica] In via incidentale o d'eccezione

Sono previste due sole vie di accesso al giudizio della Corte, col procedimento in via incidentale (o di eccezione) e col procedimento in via di azione (o principale): la questione di legittimità può essere sollevata nel corso di una giudizio e davanti ad una autorità giurisdizionale; per l’altro la facoltà è data unicamente allo Stato e alle Regioni (e alle province autonome di Trento e Bolzano) di presentare direttamente un ricorso di incostituzionalità avverso le leggi rispettivamente della Regione e dello Stato (o di altra Regione). La giurisprudenza ha poi aggiunto l’ipotesi del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato determinato da una legge o atto avente forza di legge.È stata dunque scartata la proposta di consentire ai cittadini di adire direttamente la Corte per tutelare diritti costituzionalmente garantiti che si ritengano essere stati lesi.

Dispone infatti l'art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 che «la questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, è rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione». Il giudice della causa (o giudice a quo) svolge quindi la funzione di introduttore del processo costituzionale, di «portiere» che apre le porte del giudizio di costituzionalità, e in questo immette gli elementi, sia normativi che fattuali, che connotano il processo in seno al quale prende corpo la questione di legittimità costituzionale.

La legge individua due parametri per fondare la legittimazione a proporre una questione di legittimità costituzionale: un dato soggettivo (l'essere un giudice) e un dato oggettivo-funzionale (l'esserci un giudizio); parametri che nella giurisprudenza della Corte costituzionale sono comunque stati interpretati con una certa elasticità, avendo riguardo alle peculiari esigenze del caso (giungendosi, in alcune sentenze, ad affermare l'alternatività degli stessi). Alla luce di quanto affermato, si può quindi distinguere una legittimazione in astratto (sussitente in presenza dei dati soggettivo ed oggettivo sopra richiamati) e una legittimazione in concreto (sussistente quando il giudice che sottopone la questione di legittimità costituzionale alla Corte è competente a giudicare la questione principale del processo; nonché quando egli debba fara applicazione della norma della cui legittimità costituzionale si dubita, profilo quest'ultimo che tende a sfumare nel diverso concetto di rilevanza).Il difetto di legittimazione determina l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale. La Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimazione degli arbitri a sollevare questioni di legittimità costituzionale, nella considerazione che l’artbitrato è disciplinato dal codice di procedura civile e dunque è un procedimento per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, con le garanzie del contraddittorio e dell’imparzialità. Mentre è stata negata tale legittimazione al p.m. il quale non può essere equiparato ad un giudice in quanto non emette provvedimenti decisori. Anche la stessa Corte può sollevare questioni di legittimità costituzionale.

Oltre alla legittimazione del giudice, i requisiti di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale sono dati dalla rilevanza e dalla non manifesta infondatezza (cui si aggiunge, ma solo quando non sussista sul punto un diritto vivente, il fallimento di ogni tentativo di interpretazione adeguatrice).

La rilevanza, presupposta dalla legge costituzionale n. 1 del 1948 («nel corso di un giudizio»), viene definita dalla legge n. 87 del 1953 («qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale»), e rappresenta la trasposizione in termini processuali dell'incindetalità (e concretezza) del giudizio di legittimità costituzionale.

Ciò però non significa ancora che il giudice a quo possa emettere l’ordinanza con cui sospende il giudizio e rimette la questione alla Corte. Infatti perché ciò accada sono necessarie altre condizioni successive. Innanzitutto la questione deve apparire rilevante, deve essere per il magistrato non manifestamente infondata ed infine il giudice deve esperire ogni tentativo di interpretazione adeguatrice, cioè interpretazione conforme a costituzione.

Dovendosi affermare, nonostante alcune incertezze sul punto da parte della giurisprudenza costituzionale, la non riducibilità della rilevanza (che è un dato oggettivo e necessario) all'interesse sostanziale della parte (che è, invece, un dato soggettivo ed eventuale), si deve brevemente accennare alle tesi dell'influenza e dell'applicabilità. Secondo la prima di esse, fedelmente alla lettera dell'art. 23 comma 2 della legge n. 87 del 1953, la questione di legittimità costituzionale è rilevante quando l'esito del giudizio a quo è condizionato dall'esito del giudizio costituzionale; secondo invece la tesi dell'applicabilità, la questione di legittimità costituzionale è rilevante quando, anche a prescindere da un'influenza della pronuncia del giudice delle leggi sul giudizio principale, la norma oggetto del giudizio costituzionale deve essere applicata nel giudizio a quo (a riguardo, si pensi alle norme penale di favore). Più correttamente, ribadendo in ogni caso l'autonomia del processo costituzionale (il quale, in base al disposto dell'art. 22 delle norme integrative, prosegue anche quando, «per qualsiasi causa, sia venuto a cessare il giudizio rimasto sospeso di fronte all'autorità giurisdizionale, che ha promosso il giudizio di legittimità costituzionale»), si deve ritenere che, in mancanza di applicabilità della norma indicata dall'ordinanza di rinvio, ci si trovi di fronte ad una ipotesi di difetto assoluto di rilevanza, versandosi invece in ipotesi di difetto relativo quando, pur essendo applicabile la norma, non potrebbe avere influenza sul giudizio incidentato la pronuncia della Corte costituzionale.

La non manifesta infondatezza definisce invece la funzione di filtro del giudice a quo, il quale deve sottoporre all'attenzione della Corte costituzionale questioni di legittimità costituzionale «serie» e non meramente dilatorie. Sebbene con l'espressione «non manifesta infondatezza» il legislatore abbia indicato uno stato dubitativo, ossia una condizione psicologica minima, anche al fine di evitare eventuali conflitti tra giudici «a quibus» e Corte costituzionale, la giurisprudenza della Consulta ha sempre richiesto, sul punto, un esame approfondito e non semplicemente delibatorio, giungendo a non ritenere sufficiente - nelle sentenze addittive - un semplice dubbio, ed esigendosi invece da parte del giudice a quo l'indicazione del verso dell'addizione.Vi deve essere identità tra l’istanza di parte e l’ordinanza di rimessione del giudice; cioè il giudice deve rimettere alla corte la stessa questione che è stata sollevata dalla parte mediante la sua istanza al giudice.

Entro venti giorni dalla notificazione dell'ordinanza di rimessione, le parti possono costituirsi di fronte alla Corte costituzionale, esaminare gli atti, e presentare deduzioni. Entro lo stesso termine, possono costituirsi il Presidente del Consiglio dei Ministri (in caso di legge statale) o il Presidente della Giunta regionale (in caso di legge regionale). Mentre le parti del giudizio a quo, ove costituite, sono portatrici sia di un interesse personale e concreto (traendo un vantaggio dalla pronuncia della Corte costituzionale), sia dell'interesse generale alla legittimità delle leggi (potendo quindi, anche, la parte sostenere una posizione il cui accoglimento pregiudicherebbe la sua posizione sostanziale), il Presidente del Consiglio o il Presidente della Giunta regionale (i quali non possono essere qualificati, per ragioni formali e sostanziali, come parti, bensì come interventori) rappresentano, di fronte al giudice delle leggi, il punto di vista degli organi di indirizzo politico.

Anche la Corte costituzionale è sottoposta al principio generale «ne eat iudex extra petita partium» (così detto principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato), così come si ricava dall'art. 27 della legge n. 87 del 1953: «la Corte costituzionale [...] dichiara, nei limiti dell'impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime». Se questo principio rappresenta, da un lato, la conferma implicita della rilevanza della questione di legittimità costituzionale e, dall'altro, la codeterminazione della questione di legittimità costituzionale stessa da parte del giudice a quo e della Corte costituzionale, esso presenta delle rilevanti deroghe. Innanzi tutto, nella sua giurisprudenza, la Consulta ha spesso ampliato o ridotto gli argomenti o i termini o i profili di una questione di legittimità costituzionale, giungendo anche a impugnare una legge di fronte a sé medesima (comportandosi, ossia, come giudice a quo). Ma la deroga più evidente è quella prevista dallo stesso art. 27 della legge n. 87 del 1953: «[la Corte costituzionale] dichiara altresì quali sono le altre disposizioni legislative la cui illegittimità deriva come conseguenza della decisione adottata».

[modifica] In via principale o d'azione

Il procedimento in via principale o di azione può essere attivato dallo Stato e dalle Regioni. L'art. 127 della Costituzione, così come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, stabilisce infatti che «il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione. La Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un'altra Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell'atto avente valore di legge».

Sono state quindi parificate, con la riforma del titolo V della Costituzione, le armi processuali a disposizione dello Stato e delle Regioni, venendo meno la diversità di termini (trenta giorni per l'impugnazione regionale, sessanta per quella statale), di parametro (qualsiasi norma costituzionale per l'impugnazione statale, solo quelle sulla competenza per l'impugnazione regionale), nonché il visto del Commissario del Governo e la relativa disciplina (con impugazione successiva della legge statale, e preventiva di quella regionale).

Estremamente rilevante, poi, è il disposto dell'art. 123 della Costituzione, il quale, dopo aver riconosciuto un'ampia autonomia statutaria alle Regioni, stabilisce che «il Governo della Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti regionali dinanzi alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione». Si è registrato, negli anni successivi alla riforma del titolo V della Costituzione, un ampo contenzioso vertente sulla legittimità costituzionale degli Statuti di numerose regioni, contenzioso dalla cui soluzione dipende l'effettiva configurazione dell'autonomia regionale nel nostro ordinamento.

Per quanto riguarda l'organo competente a proporre l'impugnazione, esso va individuato - a livello statale - nel Consiglio dei Ministri, e - a livello regionale - nella Giunta regionale. L'impugnazione, pur dovendo precisare puntualmente i termini positivi della questione e formulare sinteticamente i motivi, costituisce espressione di valutazioni sia giuridiche che politiche. Per il carattere personale e concreto del conflitto, poi, non sono configurabili controinteressati o altri intervenienti.

[modifica] I conflitti di attribuzione

[modifica] Tra poteri dello Stato

Dispone l'art. 37 della legge n. 87 del 1953 che «il conflitto tra poteri dello Stato è risolto dalla Corte costituzionale se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali».

Per quanto riguarda i profili soggettivi, si deve chiarire la nozione di potere dello Stato. Posto il carattere policentrico del nostro ordinamento costituzionale, e quindi la non corrispondenza tra funzione e potere, e considerando inoltre la differenza che si pone tra attribuzione (che si fonda su disposizioni costituzionali) e competenza (che, essendo la misura dell'attribuzione, trova la sua fonte in disposizioni legislative), si riduce l'importanza dell'organo-soggetto per aumentare quella dell'oggetto, ponendosi l'attenzione della Consulta, più che sulle attribuzioni, sulla natura costituzionale degli interessi. La giurisprudenza della Corte costituzionale, comunque, per riconoscere un potere dello Stato, richiede che esso sia almeno menzionato dalla Costituzione; che gli competa una sfera di attribuzioni costituzionali; che ponga in essere atti in posizione di autonomia e indipendenza; che questi atti siano imputabili allo Stato.

Per ciò che, invece, concerne i profili oggettivi, c'è da sottolineare come qualsiasi atto sia idoneo ad essere impugnato in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, e che il parametro può essere individuato in qualsiasi norma costituzionale (o anche in norme subcostituzionali concernenti la competenza).

Il conflitto, oltre alle ipotesi-limite di vindicatio potestatis, può più frequentemente assumere le forme di conflitto da menomazione o da interferenza.

Rimane infine da sottolineare come la pronuncia della Corte costituzionale riguardi sia l'atto impugnato sia, per il tramite di esso, la competenza e l'attribuzione.

[modifica] Tra Stato e Regione e tra Regioni

Perché si instauri un conflitto di attribuzione tra Stato e Regione (o tra Regioni) si richiede la presenza di un atto che invada la sfera di competenza assegnata dalla Costituzione allo Stato e alle Regioni.

Pur notando una sostanziale decostituzionalizzazione del parametro (dovendosi quindi, più correttamente, parlare di atti illegittimi e non incostituzionali), risulta impugnabile qualsiasi atto, ad eccezione delle leggi e delle altre fonti primarie, richiedendosi altresì che la lesione sia attuale, concreta e non meramente virtuale (la Corte costituzionale - ha infatti affermato in una sentenza - non è un consulente costituzionale).

La tipologia del conflitto è estremamente simile a quella presentata in sede di analisi di conflitto tra poteri dello Stato: esso potrà quindi consistere in una rivendicazione, ovvero in un conflitto da menomazione, inteferenza od omissione.

Competente a sollevare il conflitto, come per il giudizio in via principale, è il Consiglio dei Ministri o la Giunta regionale, con una impugnazione sempre successiva, e caratterizzata da elementi politici oltre che giuridici. La Corte costituzionale, d'altronde, può sospendere il giudizio e rimettere di fronte a sé stessa questione di legittimità costituzionale della legge in base alla quale è stato adottato l'atto impugnato, così come potrà sospendere l'esecuzione del medesimo atto impugnato.

Anche nel giudizio che risolve un conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni, così come quello tra poteri dello Stato, oggetto del giudizio, per il tramite dell'atto, è la competenza, sia in astratto che in concreto.

Particolare rilevanza presenta, nel giudizio di cui si sta trattando, il problema del contraddittorio. Soprattutto dopo la riforma del titolo V della Costituzione, infatti, si è riconosciuta una sfera di competenze anche agli enti locali subregionali, i quali rimangono privi di strumenti di tutela attivabili presso la Corte costituzionale.

[modifica] L'ammissibilità del referendum

Mentre, a norma dell'art. 32 della legge n. 352 del 1970, l'[[Ufficio centrale per il referendum]], istituito presso la Corte di Cassazione, è competente a pronunciarsi circa la legittimità del referendum, a norma del successivo art. 33 della stessa legge n. 352/1970, nonché dell'art. 2 della legge costituzionale n. 1 del 1953, la Corte costituzionale è competente a pronunciarsi circa l'ammissibilità del referendum.

La giurisprudenza della Consulta, sul punto, è stata notevolmente innovativa, rispetto alle scarne disposizioni costituzionali. L'unico limite espresso, infatti, riguarda l'oggetto del quesito referendario che, a norma dell'art. 75 della Costituzione, non può riguardare leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Accanto a queste limitazioni espresse, la Corte ne ha individuate altre, avendo riguardo a proprietà formali o sostanziali della legge oggetto di referendum (escludendo, in questo modo, le disposizioni di rango costituzionale, le leggi dotate di una forza passiva rinforzata, le norme a contenuto costituzionalmente vincolato). Per ciò che, inoltre, riguarda la domanda, la Corte ha precisato che essa, per corrispondere alla ratio stessa dell'istituto referendario, nonché al valore democratico del voto, deve rispondere a criteri di razionalità, omogeneità e coerenza. È infine da notarsi come, in alcune occasioni, si sia avuto un improprio esame della normativa di risulta, sub specie di sindacato anticipato di ragionevolezza.

Il Presidente della Corte costituzionale, ricevuta comunicazione dell'ordinanza dell'Ufficio centrale per il referendum che dichiara la legittimità di una o più richieste di referendum, fissa il giorno della deliberazione in camera di consiglio non oltre il 20 gennaio dell'anno successivo a quello in cui la predetta ordinanza è stata pronunciata, e nomina il giudice relatore. Nella camera di consiglio sono ammessi al contraddittorio per essere sentiti i promotori e il Governo. Ma la Corte ha escluso la partecipazione di altri soggetti in quanto "la richiesta di estendere il contraddittorio ad altri cointeressati all'esito della vicenda referendaria trova insuperabili ostacoli nella stessa complessiva strutturazione del procedimento referendario, caratterizzato da precise scansioni temporali, e nella conseguente esigenza che pure la fase del controllo di ammissibilità si mantenga in stretta connessione cronologica con le fasi che la precedono e le fasi che la seguono, restando contenuta entro rigorosi limiti di tempo, che rischierebero di venire superati per effetto di un diffuso ed indiscriminato accesso di soggetti, i quali potrebbero poi chiedere di esporre anche oralmente le proprie ragioni"(Sentenza Corte costituzionale 47/1991). Il giorno della deliberazione è comunicato ai delegati o presentatori e al Presidente del Consiglio dei Ministri. Entro tre giorni prima della deliberazione i delegati o i presentatori e il Governo possono depositare alla Corte memorie sulla legittimità costituzionale del referendum. La Corte deve decidere con sentenza da pubblicarsi entro il 10 febbraio, indicando le richieste ammesse e quelle respinte. Della sentenza è data d'ufficio comunicazione al Presidente della Repubblica, ai presidente delle Camere, al Presidente del consiglio dei ministri, all'Ufficio centrale per il referendum e ai delegati e presentatori entro cinque giorni dalla pubblicazione della sentenza e il dispositivo della sentenza è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

[modifica] I reati presidenziali

La Corte costituzionale, infine, è competente a giudicare del Presidente della Repubblica per i reati funzionali di alto tradimento e di attentato alla Costituzione (rimanendo la competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria per i reati comuni, e l'irresponsabilità presidenziale - cui si affianca un obbligo morale di dimissioni, posto che, a norma dell'art. 54 secondo comma «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore [...]» - per i restanti reati commessi nell'esercizio delle sue funzioni).

In tale ipotesi, il Presidente della Repubblica è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune (richiedendosi la maggioranza assoluta dei membri), e giudicato dalla Corte costituzionale, integrata nella sua composizione da sedici membri estratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l'eleggibilità a senatore.

Si ricorda comunque che, inizialmente, sino alla riforma intervenuta con la legge cost. 1 del 1989, la Corte era competente anche per i reati commessi nell'esercizio delle funzioni da parte dei membri del Governo. Oggi tale funzione, pur con procedure particolari, è assolta dalla giustizia ordinaria.

[modifica] Bibliografia

Per esempio, sulla Corte costituzionale francese :

  • Frédéric Monera, L'idée de République et la jurisprudence du Conseil constitutionnel- Paris, L.G.D.J., 2004 [1]-[2]

[modifica] Voci correlate

[modifica] Collegamenti esterni

Repubblica Italiana Alte Cariche Costituzionali della Repubblica Italiana Repubblica Italiana

Capo dello Stato: Presidente della Repubblica
Parlamento: Presidente del Senato della Repubblica | Presidente della Camera dei Deputati
Consiglio dei Ministri: Presidente del Consiglio dei Ministri
Corte Costituzionale: Presidente della Corte Costituzionale

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